«Ci sono cose che rendono vulnerabili e questa sensazione non è ancora passata. Darò tempo al tempo». Di quel sabato sera Alessandra Pizzo ricorda bene ogni dettaglio. È il 26 gennaio ed è già sera inoltrata quando una donna si presenta in via Liszt 34. È lì che si trova il servizio di continuità assistenziale visibilmente agitata. Di turno c’è ancora la dottoressa Pizzo, ed è da sola. Prima la insulta, accusandola di non averle passato al telefono il pediatra in servizio, poi la aggredisce fisicamente, mettendole le mani addosso. Un episodio grave, che scuote molto il medico. Fino a indurla, nei giorni immediatamente successivi, a riflessioni amare e intrise di delusione. «Spesso mi viene chiesto perché continuo a scegliere di lavorare in guardia medica a Bagheria…In fondo ci sono molti posti più tranquilli, con meno carico lavorativo, con gente più educata. Ho provato a dare diverse risposte ma, in fondo, nessuna ha mai convinto me per prima», osservava la dottoressa a due giorni dall’aggressione subita.
«Me lo richiedo oggi, dopo aver conosciuto la cattiveria dell’essere umano, dopo essere stata aggredita fisicamente. Forse sento di appartenere a questa città, sento di voler e dover fare qualcosa per lei. Forse sentivo. Non mi sono mai sentita sicura dentro quella guardia, spesso sembra un ring piuttosto che un posto di lavoro. Amaramente oggi lo confermo e lo condivido.
Siamo soli. In pericolo. Indifesi. Vi offriamo il nostro meglio con il nostro niente. Ci portiamo a casa i nostri piccoli grandi successi, le spalle larghe, il bene fatto bene, i vostri grazie e i vostri sorrisi ed andiamo avanti. Se ci aggredite non possiamo più farlo. Se a 31 anni mi togliete la passione e la dedizione per questo “lavoro di trincea” finirò per scappare via anche io». A un mese di distanza l’amarezza è sopita ma rimane sempre lì, anche se la dottoressa Pizzo è decisa più che mai, a mente lucida, a non mollare la presa, a non andare via, a non rinunciare a quello che ha faticosamente raggiunto negli anni. «Penso che nessuna scelta lavorativa, che spesso coincide con una scelta di vita, debba essere condizionata dall’inciviltà e dall’immoralità. Per cui resto al mio posto – spiega oggi -. E spero che, in un futuro più o meno lontano, possa essere estirpato il peggiore dei mali della guardia medica: l’essere soli».
Un male che tra colleghi conoscono bene e che si cerca di gestire come si può, ricorrendo alle volte anche a stratagemmi personali. «Anche mia figlia fa i turni in guardia medica e non ha nemmeno 30 anni, è molto giovane. Quando deve lavorare di notte insieme a lei ci va anche suo marito oppure io stesso, in modo da non lasciarla sola», racconta il dottore Francesco Paolo Carollo, segretario regionale per la Sicilia della Federazione italiana sindacale medici uniti (Fismu). «Parliamo di ragazzi, questi episodi di violenza rischiano di scoraggiarli a tal punto da farli disamorare del mestiere che hanno scelto e chi ci perde è solo il paziente. Il problema esiste ed è serio – torna a dire il medico -. Come si fa ad aggredire uno che è messo là per darti una mano? Io faccio il medico per aiutarti, è vero che sono anche io un essere umano, quindi con i miei pregi e difetti chiaramente, ma ho scelto di fare questo mestiere per aiutare gli altri». Circostanza che, a giudicare dalla preoccupante escalation di aggressioni a danno di dottori e personale medico all’interno non solo di guardie mediche ma anche di ospedali e pronto soccorso, sembra contare davvero poco per chi perde il senno reagendo in maniera violenta.
«A Bagheria è stato un atto gratuito», continua Carollo, tornando all’aggressione subita un mese fa dalla dottoressa Pizzo. «Io la conosco, è una persona educata e professionale, in quel caso la cosa grave è stata anche che non ci fu nessuna mancanza da parte della dottoressa, non c’è stato uno sgarbo della collega né non ha voluto fare il medico». Nel caso di Bagheria, però, al problema della sicurezza dell’ambiente, che vale per ogni presidio distaccato, si aggiunge quello del carico di lavoro eccessivo: «Il 90 per cento dell’utenza che va in quella guardia medica non è abituata ad andare anche e prima dal proprio medico curante – spiega -. Stiamo provando a raddoppiare i medici di guardia nel caso specifico. Per gestire tutte le richieste e per lavorare più serenamente in caso di altri episodi di violenza. Ma se non arriviamo all’arresto immediato di chi aggredisce, noi da questa cosa non potremmo mai uscire fuori, alla luce di un livello culturale generale che sembra essere scaduto molto».
Il combustibile, insomma, di tutta questa violenza, che sia solo verbale o nei casi più gravi anche fisica, sarebbe per il dottor Carollo l’ignoranza. «La gente è convinta di sapere la medicina, si sentono tutti medici leggono qualcosa su Internet e poi vengono da noi per contestarci, per sentirsi dire che hanno ragione. Un po’ come quello che sta accadendo con la scuola, dove i genitori vanno a bacchettare gli insegnanti, quando va bene – dice -. O torniamo a un livello culturale tale in cui ci si renda conto di cosa significa fare il medico e prestare aiuto oppure ripensiamo il sistema delle cure primarie del nostro territorio, per intercettare la reale richiesta di salute e non la domanda. Se no davvero non so dove andremo a sbattere la testa e lo dico con molta sofferenza, io questo mestiere lo faccio da 42 anni con grande passione». Il dibattito sul tema è al momento piuttosto vivo, ma per sperare che la situazione migliori bisogna che arrivi ai vertici, a chi può decidere di cambiare le cose.
«Spostare le guardie mediche che spesso sono decentrate, isolate, in strade strette, al buio e trasferirle a fianco degli ospedali con vigilantes potrebbe essere un’idea», spiega ad esempio il segretario regionale di Fsi-Usae Calogero Coniglio. «Una soluzione provvisoria, e dove non ci sono ospedali vicini si possono accorpare guardie mediche di più paesi di piccole dimensioni, così ci sarebbero più medici. Assegnando sempre almeno un vigilante – continua -. Alcuni direttori generali stanno pensando di attuare questa soluzione, gliel’avevamo proposto e l’idea piaceva. Ma ci vogliono i fatti». Sembra finito, insomma, il tempo per vagliare, ragionare, discutere. Una soluzione serve e serve adesso. «C’è un imbarbarimento della società. Intolleranza e crescita dell’aggressività», sottolinea anche Coniglio. Motivi per cui è importante prendere in mano la situazione e dare un segnale forte. Ai medici in primis. Come conferma anche il radiologo Giuseppe Spinosa, che parla di «un fenomeno complesso, che ha alla base molte cause diverse». A cominciare dal sotto finanziamento del sistema sanitario e la disorganizzazione che ne consegue, a dispetto delle aspettative dei pazienti che invece aumentano e che, tra lunghe attese e reparti sguarniti, si esasperano facilmente. «Il medico ormai viene visto come un nemico, questo è intollerabile e molto grave dal punto di vista sociale e culturale».
«Lavoriamo in condizioni difficili. Paghiamo il prezzo della cattiva politica sanitaria, è una delle cause principali – ribadisce -. Nelle guardie mediche il medico è solo, abbandonato a se stesso, in posti spesso di periferia, è esposto al primo non sano di mente, la guardia medica cura tutti, chiunque potrebbe avere una reazione inusitata, imprevedibile e violenta. La sanità territoriale, ormai depotenziata, povera ed emarginata, non riesce a dare risposte, il pronto soccorso è l’unico presidio territoriale che ci prova e tutti vanno là. Il malato, purtroppo e giustamente, non è in grado di discernere la gravità della sua situazione». A fare la differenza, quindi, potrebbe essere intanto una politica sanitaria più accorta: più personale, più posti letto, più strumenti. «Per tanti anni abbiamo sofferto del blocco delle assunzioni, ora invece ci troviamo di fronte a una carenza di medici e di professionisti che non vogliono lavorare in certe sedi. Può andare solo a peggiorare questa situazione, non si era mai toccato un livello così basso nella sanità – osserva il medico -. Si dovrebbero intraprendere delle politiche di lungo periodo che nel giro di qualche anno possano determinare un’inversione di tendenza. Se no qua finisce che o si va a fare il medico altrove o si cambia mestiere».
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