Gesti, riti e silenzi: fotografia del linguaggio mafioso «Impenetrabile, perché spesso parla senza parlare»

Si può tradurre la mafia, con i suoi rituali, la sua gestualità, il suo gergo? Pur non essendone parte integrante? Ci ha provato Giuseppe Paternostro, ricercatore di linguistica italiana che firma il libro Il linguaggio mafioso, edito da Aut Aut e presentato ieri pomeriggio alla Casa della Cooperazione, in via Ponte di Mare. Di Cosa nostra e dei suoi padrini analizza modi di fare e di parlare, toni di voce e inclinazioni, espressioni e pizzini. Trasformando il volume in uno strumento conoscitivo e di approfondimento di quello che quest’associazione criminale dice e, soprattutto, di quello che non dice. «La sua caratteristica più pregnante è questo parlare senza parlare – spiega l’autore -. La mafia è molto altro del semplice non parlare, del semplice silenzio, dell’omertà. Proporrei di togliere il termine “silenzio” e usare “ambiguità”, perché quello della mafia non è insomma un linguaggio assente ma un linguaggio ambiguo, è attraverso il suo dire e non dire che si rapporta col mondo esterno».

Ma indagare un’associazione che fa del silenzio la sua cifra costitutiva non è semplice. «La parola stessa che la identifica, “mafia”, è un alibi che utilizza da sé, di cui si appropria per poter dire, al momento giusto, di non esistere neppure – dice Paternostro -. Perché è così, la parola l’hanno inventata i mafiosi stessi, si sono appropriati di una confusione. E questo non è che un nome sfruttato casualmente, ripreso forse da quelle istituzioni che lo usarono anni e anni addietro; la prima volta appare in un rapporto ufficiale del 1865 del prefetto di Palermo, che forse si ricordava di una messa in scena di due anni prima che si chiamava I mafiusi della vicaria». Secondo l’autore, per carpire qualcosa di un’associazione ancora oggi poco penetrabile e poco conosciuta potrebbe servire ascoltare i momenti di confronto in aula tra mafiosi imputati e pentiti. 

Uno sforzo che di fatto, però, non ce ne restituirà mai del tutto i misteri, i dettagli. Un linguaggio forse destinato a restare criptico, mai venuto fuori del tutto, «malgrado i suoi gesti, i suoi toni di voce, persino il suo deambulare ci permettano, a noi siciliani soprattutto, di riconoscere qualcosa», osserva Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato. Insieme anche a Faro Di Maggio: «Non sono un mafioso quindi non posso parlare del linguaggio dei  mafiosi – dice subito -. Posso parlare però di un linguaggio antimafioso. Come quello usato attraverso Radio Aut negli anni ’70, una sorta di avanguardia del linguaggio contro la mafia: Cinisi era Mafiopoli, corso Umberto era corso Liggio, Gaetano Badalamenti era Tano Seduto». Un linguaggio nato in quel periodo, con quei ragazzi che parlavano di altro, e non solo di politica o di quello che questa imponeva attraverso una linea nazionale.

Un’antimafia giovanile, studentesca e di movimento «che comincia a porsi il problema, a dispetto della politica che fino a quel momento era stata protagonista di tutti i discorsi. Il problema della mafia. Quella che per tutti, a sentirli parlare, nemmeno esisteva, tutt’al più era un fenomeno delinquenziale, ma nient’altro – ricorda Di Maggio -. Per noi invece era una piovra che voleva sostituirsi alle istituzioni. Eravamo un giornale di controinformazione, dicevamo cose che nei giornali normali erano relegate in qualche trafiletto, se andava bene, ponendoci domande, riflessioni, problemi che gli altri non si ponevano». «Quindi no – torna a dire -, non so molto del linguaggio di un mafioso. So però cosa significa dire che “la mafia è una montagna di merda”. Nessuno aveva mai parlato così, noi abbiamo fatto una scelta culturale, mentre in quel momento a livello nazionale si andava in un’altra direzione».


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