Georgofili, la donna che avrebbe prelevato l’esplosivo militare L’identikit trovato dopo 29 anni. Spatuzza: «Non era dei nostri»

Oggi potrebbe avere tra i 55 e i 60 anni, ma nella primavera del ’93 era una ragazza di bell’aspetto, alta circa un metro e settanta e con un caschetto scuro. Addosso un abito che la faceva sembrare una hostess, ai piedi delle scarpe col tacco. È questo l’identikit della donna che potrebbe avere avuto un ruolo nelle fasi finali della preparazione dell’attentato in via dei Georgofili, la strage che, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, causò a Firenze la morte di quattro componenti della famiglia Nencioni, tra cui due bambine, e dello studente Dario Capolicchio, oltre al ferimento di una quarantina di persone. A redigere il profilo, poche settimane dopo l’esplosione dell’ordigno posizionato nelle vicinanze della Galleria degli Uffizi, fu un carabiniere, ascoltando il racconto del portiere di un condominio di via Bardi, a qualche centinaio di metri dal luogo dell’attentato. La scena sarebbe iniziata con una imprecazione, e poi con una frase rivolta dalla donna ai passeggeri di un’auto, dietro cui la vettura su cui era arrivata – forse una Mercedes – si era fermata. «Forza, sbrighiamoci, dai, dai dai», sono le parole che sarebbero state pronunciate. Il portiere avrebbe seguito tutto dal palazzo antistante. «Ha aperto lo sportello posteriore della Mercedes e i due uomini – mise l’uomo a verbale nell’estate di 29 anni fa – hanno sollevato la borsa, mettendola sul sedile posteriore. Ho notato che, per la forma che ha assunto nell’atto di sollevarla, doveva pesare parecchio. La donna è risalita sulla Mercedes, che è partita seguita dal veicolo furgonato (il Fiorino che poi fu fatto saltare in aria, ndr)». 

Cosa contenesse la borsa non è semplice dirlo, ma – secondo il comitato della commissione nazionale Antimafia presieduto dal senatore Mario Giarrusso – potrebbe avere ospitato almeno parte dell’esplosivo militare aggiunto al tritolo che, nei giorni precedenti, era partito con un autocarro dalla Sicilia. Sul fatto che in via dei Georgofili vennero usati anche pentrite e T-4, materiali a disposizione degli ambienti militari, dubbi non ce ne sono. Così come la quantificazione del peso dell’esplosivo confezionato dai mafiosi palermitani: le «forme di parmigiano», così veniva indicato il tritolo per la forma con cui era stato preparato, pesavano al massimo 60-70 chili l’una, ma per l’attentato vennero usati circa 250 chili di esplosivo. Su quei fatti si sono celebrati diversi processi che hanno portato a sentenze definitive contro esponenti di rilievo di Cosa nostra. Tuttavia, da anni, così come per le stragi del ’92 a Capaci e via D’Amelio, il sospetto è che avere avuto un ruolo possano essere stati anche soggetti esterni alla mafia siciliana. Tra cui appartenenti a Gladio, la struttura segreta che all’ombra dei servizi segreti militari ha agito in Italia per almeno quarant’anni e la cui soppressione – nel ’90 con Giulio Andreotti presidente del Consiglio – non è bastata a chiarire le innumerevoli ombre che circondano quella fase storica. 

Nata negli anni Cinquanta sotto l’egida della Nato e dei rapporti diretti tra Italia e Stati Uniti con l’obiettivo di anticipare o contrastare un potenziale pericolo sovietico, con il passare degli anni Gladio sarebbe stata usata per intervenire nella vita pubblica nazionale, potendo contare su una lunga lista di appartenenti molti dei quali tenuti fuori dall’elenco dei 622 nomi divulgati dal governo. Nel caso di via dei Georgofili – strage a cui seguirono quelle di Roma e Milano – i palermitani potrebbero avere avuto un ruolo protagonista fino a un certo punto: gli uomini di Cosa nostra avrebbero trovato appoggio a Prato, occupandosi del furto del Fiorino usato per l’attentato e caricandolo con il tritolo. A posizionare il mezzo in via dei Georgofili – secondo un altro testimone oculare – potrebbe essere stato un soggetto esterno: giovane, di sesso maschile e alto all’incirca un metro e ottantacinque. Ovvero oltre una quindicina di centrimetri in più rispetto a Cosimo Lo Nigro, l’uomo che le sentenze dicono essere stato colui che parcheggiò il Fiorino prima del botto. 

Quelli furono gli anni in cui Cosa nostra, dopo avere colpito politici e magistrati in Sicilia, spostò l’attenzione verso il centro e nord Italia. Attentati dai tratti terroristici, che avrebbero puntato a creare il caos nel Paese, colpendo monumenti e luoghi simbolo della nazione. Tra coloro che ritengono possibile un contributo esterno c’è Gaspare Spatuzza, l’uomo di fiducia di Giuseppe e Filippo Graviano, i capimafia di Brancaccio che, con Matteo Messina Denaro, furono, dopo l’arresto di Totò Riina, i principali protagonisti di quella stagione. Una considerazione figlia dell’«evolversi di tutto quello visto in questi anni», ha detto Spatuzza, che è tra i collaboratori di giustizia auditi dalla commissione Antimafia. L’ex soldato dei Graviano ha tuttavia specificato di non essere entrato in contatto con soggetti esterni all’associazione mafiosa a Prato, né di avere conosciuto la donna ritratta nell’identikit. «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente la percezione che ci fosse una donna, in secondo o terzo piano, in quello che era il gruppo operativo», ha messo a verbale Spatuzza.


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