Nuova protesta degli operai dell’indotto della Raffineria di Gela, che questa mattina si sono presentati davanti agli ingressi del Palazzo di Vetro dove sventola ancora, scialba e sbiadita, la bandiera del cane a sei zampe. A spiegare i motivi del presidio, non privo di tensione, è Francesco Cacici, neoeletto segretario provinciale Ugl metalmeccanici. «Eravamo una ventina di persone – dice – e ci siamo riuniti davanti i cancelli dell’Eni per far vedere la nostra presenza. Si sono dimenticati di noi, degli operai dell’indotto. Abbiamo provato a contattare qualcuno dell’azienda, ma ci hanno fatto sapere che con noi non volevano parlare».
A quel punto gli animi si sono surriscaldati, tanto da far arrivare gli agenti della Digos. «Abbiamo ricordato anche a loro – aggiunge Cacici – che esiste un bacino di disponibilità che non viene rispettato. È un protocollo firmato dalle istituzioni e dall’azienda, nel quale c’è la lista di chi dovrebbe avere la priorità nelle nuove assunzioni. Ci sono persone che lavorano qui dal 1980, che hanno tra i 55 e i 60 anni. Dove dovrebbero trovare un altro lavoro?». Il segretario Ugl spiega poi di aver stilato un «documento da inoltrare all’Eni e alla prefettura».
Negli scorsi giorni i sindacati confederali avevano denunciato il processo di precarizzazione all’interno dell’ex stabilimento petrolchimico. Un fenomeno sempre più diffuso, soprattutto dopo la firma del protocollo d’intesa del 6 novembre 2014 che ha sancito la cosiddetta riconversione degli impianti. Una riconversione che per molti operai dell’indotto ha significato il passaggio forzato dai contratti nazionali e dalle tutele ad esse correlate alla precarizzazione dei nuovi contratti figli del Jobs Act. «Oramai molte aziende dell’indotto – confermano i segretari provinciali dei metalmeccanici di Fiom, Fim e Uilm – non applicano integralmente i contratti nazionali e preferiscono appoggiarsi alle società di lavoro interinale. Così i contratti vengono rinnovati di mese in mese e i lavoratori non hanno alcuna certezza. Decine di operai, usciti dal ciclo produttivo di Eni, non sono stati più riassorbiti, violando gli accordi sottoscritti».
A dirlo sono i segretari Orazio Gauci, Angelo Sardella e Nicola Calabrese che hanno poi chiesto un incontro ufficiale agli imprenditori di Sicilindustria. E il quadro dipinto dai lavoratori e dai sindacati mal si concilia, almeno in apparenza, coi numeri trionfalistici diffusi dal cane a sei zampe. A settembre Eni rendeva noto che «nel 2017 i dati dei primi sette mesi dell’anno mostrano che il livello di occupazione dell’indotto ha superato in media i 1.450 lavoratori (a tempo determinato, ndr) rispetto ai mille previsti nel protocollo, con un trend in crescita da gennaio a giugno, mese nel quale si è raggiunta la cifra record di circa 1.600 unità». Si assumono lavoratori, insomma, ma per poco tempo e selezionando rigorosamente chi entra e chi no. La denuncia è ancora una volta di Cacici: «Conosco colleghi che hanno lavorato dentro la raffineria per due-tre settimane in tre anni. La durata di un cantiere e poi via, a casa. Qui – conclude – c’è gente che sa morendo di fame».
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