«Insegno la lingua e la cultura italiana a studenti stranieri che si trovano in città e le motivazioni sono tante». Inizia così il racconto a MeridioNews di Fabrizio Leto, docente presso la Scuola di Lingua italiana per Stranieri dell’Università di Palermo. «Ci sono universitari in Erasmus, stranieri che studiano nella nostra città per diverse ragioni, migranti adulti o minori non accompagnati: ragazzi che sono arrivati con i barconi, che non hanno alcun tutore legale e che vivono nelle comunità». Studenti di ogni provenienza, età e scolarizzazione dunque, che formano classi estremamente miste come quella in cui insegna Leto e per le quali occorre realizzare programmi ad hoc. Impresa non facile: «Ho a che fare con alunni dal background molto differente. La professoressa Mari D’Agostino, che dirige la Scuola – spiega il docente – ha spinto affinché le classi fossero miste dal punto di vista della scolarizzazione e della provenienza degli studenti. La didattica si è dovuta adattare a questo tipo di esigenza».
Il difficile compito, però, viene assolto diligentemente dagli insegnanti, che ricorrono a strategie e a metodologie sperimentali per adeguare il programma alle esigenze di tutti. Si analizzano immagini e linguaggi usati dalla pubblicità o video che utilizzano un certo gergo che poi gli studenti esaminano, oppure si proiettano film che permettono approfondimenti della cultura italiana. Tutte visioni che si dimostrano spesso essere spunto ideale per dibattiti in classe e confronti con la cultura d’origine degli alunni. «L’aspetto più stimolante di questo lavoro è che si impara qualcosa di nuovo ogni giorno – torna a dire il professor Leto -, non soltanto dal punto di vista della linguistica, ma soprattutto da quello culturale. Personalmente traggo un arricchimento continuo dai racconti personali degli studenti».
Il rapporto con questi ragazzi supera la dicotomia docente-alunno: «Accade soprattutto con i migranti, mentre gli studenti Erasmus sono tendenzialmente un po’ più snob perché subito entrano in contatto con i loro colleghi, si creano un giro di amici e frequentano le feste». A facilitare i rapporti con i migranti contribuisce il fatto che loro risiedono a Palermo, città nella quale intendono rimanere. Inoltre il racconto delle loro vicende personali permette agli insegnanti di entrare in empatia con loro: «Riusciamo a capire molte più cose in questo modo – spiega il docente -, per esempio, alcuni ritardi a lezione degli studenti nigeriani dipendono dalla necessità di chiamare a un orario preciso i parenti in Africa. Conoscere queste situazioni ci permette di rapportarci al meglio con loro».
Ma, come in ogni lavoro, anche questo ha luci e ombre: «L’aspetto più complesso sta nell’elaborare una didattica che riesca a integrare profili così diversi di alunni, non si tratta soltanto di un problema di provenienza, ma anche di scolarizzazione», dice Leto. Sì, perché mentre lo studente Erasmus ha un livello di scolarizzazione universitario, il minore arrivato con il barcone, in genere, ha frequentato la scuola fino alle classi medie e in maniera discontinua. Altri ancora sono analfabeti. Tra gli studenti, però, tende a instaurarsi una collaborazione che supera le diversità. «È un lavoro in cui noi docenti crediamo molto. Oltre a insegnare la lingua lavoriamo anche al processo di integrazione nel territorio, che deve partire dalla classe stessa. Insomma – dice il professore Leto -, la Scuola cerca di aprirsi al territorio il più possibile e soprattutto cerca una risposta delle istituzioni». Un percorso di integrazione come quello che affrontano questi ragazzi dovrebbe essere strutturato secondo un progetto ampio e a lungo termine: «Uno studente migrante che comincia un percorso di formazione deve sapere che inizierà giorno 1 gennaio 2016 e finirà il 31 dicembre 2018, e che nell’arco di questo tempo ci saranno 1500 ore di lezione continuative. Questo sarebbe utile sia per dare maggiore stabilità a chi lavora in questo settore che agli studenti, che affronterebbero un percorso completo. Ma questo, purtroppo è un problema di respiro nazionale» conclude rabbuiandosi. Poi torna a parlare dei suoi studenti: «Finiti i corsi, molti ragazzi dell’Erasmus e del Servizio Volontario Europeo decidono di rimanere a Palermo per viverci: evidentemente – chiosa – trovano nella nostra città qualcosa che noi non riusciamo più a vedere».
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