Discoteche, incontri tra clan per prezzo cocktail «Protezione mafia necessaria per gestire locali»

Nel chiosco fuori dalla discoteca i cocktail costavano la metà. Così i catanesi che frequentavano il locale ballavano dentro ma bevevano fuori. A complicare questo spaccato di concorrenza sleale tra due attività commerciali della zona di viale Africa c’è un dato: secondo i magistrati, il club sarebbe stato nell’orbita del clan Mazzei, mentre il baracchino sarebbe stato gestito dal gruppo della Stazione dei Santapaola-Ercolano. Cosche entrambe affiliate a Cosa nostra, ma storicamente rivali. Un fatto che avrebbe scatenato più di una tensione, causando l’intervento perfino di due presunti capimafia. C’è anche questo aneddoto nel decreto con il quale la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Catania stabilisce la sorveglianza speciale e la confisca di beni del valore di 27 milioni di euro ai danni di Francesco Ivano Cerbo, padre di William, quest’ultimo accusato di essere il braccio destro per gli affari di Sebastiano Nuccio Mazzei.

Il blitz Scarface dell’aprile 2014 aveva portato alla luce i presunti interessi della mafia in alcuni stabilimenti balneari e discoteche cittadine. In particolare sul Moon di via Simeto, nei pressi di viale Libertà, che sarebbe stato fittiziamente intestato a Francesco Ivano Cerbo e Carmelo Panebianco, e gestito da Willy Cerbo. E proprio nei pressi del Moon ci sarebbe stato il chiosco che, nel 2012, è finito al centro di conversazioni intercettate e colloqui in carcere. Secondo la ricostruzione degli investigatori, il giovane Cerbo sarebbe andato a lamentarsi dei prezzi troppo bassi dei rivali con i referenti sul territorio del gruppo della Stazione del clan Santapaola. È il 2012 e i magistrati scrivono che il gestore della discoteca va a discutere del costo al pubblico dei superalcolici con Benedetto Zucchero e Cristoforo Romano

Zucchero è stato condannato in primo grado nel 2014 a 12 anni e in appello a 9 anni e 8 mesi, sul secondo pesa una condanna in secondo grado a 20 anni. Sono figlio e genero del boss, all’epoca detenuto a Bicocca, Pippo Zucchero. Per l’accusa, il capomafia avrebbe organizzato gli affari anche dal carcere, impartendo direttive ai giovani eredi. La scelta di rivolgersi direttamente a Zucchero e Romano, però, non sarebbe andata giù a Nuccio Mazzei. Il quale, secondo le intercettazioni ambientali, avrebbe preteso che William Cerbo ne parlasse prima con lui. Discorso simile vale per l’affaire parcheggiatori abusivi, vicenda anche questa discussa nel 2012: di fronte alla «discoteca dei Carcagnusi» avrebbero voluto esserci i posteggiatori gestiti dai Mazzei, la zona, però, è storicamente appannaggio dei Santapaola. Un «conflitto di competenza territoriale» del quale avrebbero parlato Cristoforo Romano e Domenico Zuccaro, quest’ultimo condannato in primo grado a vent’anni.

A parlare dei rapporti di William Cerbo con Nuccio Mazzei (che dall’aprile 2014 allo stesso mese 2015 è stato latitante) non sono soltanto le intercettazioni. È lo stesso imprenditore 35enne a raccontare, nel corso delle udienze del processo in cui siede sul banco degli imputati, di quell’amicizia con il figlio di Santo Mazzei, quest’ultimo fatto uomo d’onore nel 1992 per volere direttamente di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. Per gestire un locale notturno a Catania, sostiene il giovane Cerbo, è «indispensabile» la protezione della criminalità organizzata. Un rapporto che però, secondo lui, non si sostanzia in una collaborazione. Tant’è che una notte viene tenuto fuori dal Moon perfino un ospite importante, il figlio di Nuccio Mazzei. William non è sul posto e a gestire la situazione pensa suo padre, Francesco Ivano. Che però non fa entrare il rampollo. Ricevendo in cambio un sonoro rimprovero dal figlio, che gli ricorda «quale fosse la sua vera famiglia, chi garantisce a tutti loro il pane, chi doveva essere ringraziato per la possibilità» di lavorare. Affermazioni che per i magistrati sono sintomo dell’importanza del ruolo dei Carcagnusi negli affari dei Cerbo, e che per William – invece – sottolineano solo la tranquillità garantita dall’amicizia con la cosca.

Quella stessa tranquillità che, fuori dal territorio etneo, sarebbe stata più difficile da conquistare. Come nel caso delle truffe, ammesse davanti ai giudici, che avrebbero avuto tutte lo stesso metodo: creare società, farle apparire sane, acquistare a credito della merce e poi non pagare i fornitori. Alle volte, però, le cose non sono andate come da programma. Sarebbe stato il caso della società Civico otto, titolare di 24 appartamenti in un residence di Anzio. Acquistato il 50 per cento dell’azienda tramite un prestanome di fiducia, Cerbo avrebbe tentato di vendere gli immobili. Si sarebbe accorto solo allora, però, che su case e garage c’erano vincoli e ipoteche che ne rendevano impossibile la cessione. A quel punto, William Cerbo avrebbe tentato almeno di riprendere qualche soldo coi canoni di locazione. Recupero, però, non riuscito: nel Lazio (Anzio è in provincia di Roma) sarebbe arrivata l’ombra dei clan locali. Di fronte a una minaccia dei Casamonica, il tentato affare sarebbe definitivamente sfumato. Lasciando gabbato l’aspirante truffatore.


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