«Il nostro è un Paese che fa retorica sulla memoria, ma non sa coltivarla». Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso sotto i colpi di kalashnikov da un commando mafioso il 3 settembre del 1982, in via Carini a Palermo, affida a quattordici parole la sintesi perfetta di una realtà amara. Un’analisi lucida, disincantata. Sua sorella, Rita, nei giorni scorsi ha consegnato a Facebook il suo sfogo. Una foto postata sul profilo che racconta un abbandono. Una lapide, quella che ricorda il sacrificio del padre in via Carini a Palermo, dimenticata. Una fioriera trasformata in pattumiera improvvisata. Poco distante una bici, parcheggiata lì, sotto il simbolo di un impegno portato avanti sino all’estremo sacrificio. «Una vergogna per la Palermo degli onesti» scrive Rita.
«Dopo la strage la reazione di Palermo fu forte – dice Nando Dalla Chiesa a MeridioNews -, poi, poco a poco, quella lapide è stata abbandonata». Un martire dimenticato. Come altri. Come Pippo Fava, ad esempio. «Qualche tempo fa – racconta il figlio del generale – sono andato in un liceo di Catania per ricordare il giornalista ucciso da Cosa nostra e sono rimasto stupito: su 200 studenti delle quinte classi solo uno sapeva chi era. È il segno dell’incapacità, non solo della scuola, ma soprattutto delle famiglie, di tramandare la storia orale di una città. È un grande limite, oltre che un paradosso».
L’oblio della memoria per la sorella Rita si fa più duro nel confronto con altri martiri dell’antimafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sotto le loro abitazioni scrive nel lungo post affidato a Facebook «ho trovato amore, ricordi, messaggi, la targa della Nave della legalità. Ho pregato anche io davanti al loro immenso sacrificio, e a quello delle loro scorte». Ma Nando Dalla Chiesa allontana la polemica tra vittime di serie A e vittime di serie B. «Ci sono tanti siciliani che non vengono ricordati – dice -. Certamente Falcone e Borsellino rappresentano per la Sicilia il simbolo del riscatto ed è normale per un popolo intero identificarsi in loro, anche per quello che hanno subito in vita, per l’isolamento, per il tentativo di delegittimazione messo in atto nei loro confronti». Ma il problema vero del Paese è «la memoria corta. Si dimentica presto, lo dimostrano i tanti siciliani eroici che hanno lapidi abbandonate».
Così accade che quelli che dovrebbero essere «luoghi di culto civile, simboli del prezzo pagato alla democrazia da servitori dello Stato, di cui i cittadini per primi dovrebbero essere orgogliosi, siano vissuti, al contrario, con fastidio da chi considera una sventura dover convivere con quei simboli di morte e di lutto sul proprio marciapiedi e sulla propria strada. In via Carini – dice ancora Nando Dalla Chiesa – accanto alla lapide abbandonata che ricorda il sacrificio di mio padre, c’è un’edicola votiva sempre piena di fiori freschi. Credo che se sotto casa mia ci fosse la lapide di un eroe antimafia io per primo andrei a deporre un fiore». Perché tutti i martiri della mafia «vanno onorati» in una sorta di «tour della memoria», un percorso non tra semplici lapidi, ma tra «luoghi di resistenza civile».
«I palermitani dovrebbero ricordare che mio padre è venuto in Sicilia volontariamente ed è morto per loro – prosegue -. Da allora tante cose sono state fatte, spesso con un prezzo altissimo, e la situazione è imparagonabile rispetto ad allora. Eppure c’è un contesto generale di indifferenza, che resta maggioritario. Nessuno oggi sarebbe lasciato solo, ma nelle istituzioni politiche c’è una buona dose di retorica e una riluttanza ad impegnarsi concretamente per cambiare le cose».
Sarà forse anche per questo che Nando Dalla Chiesa ha deciso di non tornare in Parlamento. «Mi è stato chiesto – ammette -, ma preferisco restare all’Università, dove il mio lavoro si sta dimostrando produttivo, piuttosto che impegnarmi in politica, perché conosco bene le grandi perdite di tempo del Parlamento». A Milano il figlio del generale Dalla Chiesa è il presidente del Comitato antimafia istituto dal sindaco Pisapia. Un impegno contro Cosa nostra condotto anche attraverso la diffusione della conoscenza del fenomeno mafioso. «Per molto tempo al nord sulla mafia c’è stato un affastellarsi di luoghi comuni: dalla negazione del fenomeno da parte di chi diceva che le regioni del settentrione erano dotate degli anticorpi all’affermazione di una mafia diversa fatta da boss in doppiopetto che parlano in inglese e studiano all’estero. Una visione che si è rivelata una fesseria. Abbiamo vissuto una sorta di parassitismo intellettuale, che ha impedito di contrastare l’affermazione di Cosa nostra, che per essere combattuta deve necessariamente essere studiata e conosciuta».
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