Cambiano, forse, gli strumenti di tortura e i nomi, ma le storie che arrivano dalla Libia hanno ormai quasi tutte lo stesso sapore amaro. Chi sopravvive e decide di raccontare i mesi di prigionia vissuti nelle ex basi militari di Saba o Zawyia restituisce puntualmente il racconto atroce di pestaggi continui con cavi elettrici o tubi di gomma, di dita fratturate e segni nel corpo che non spariranno più, di stupri sistematici cui viene sottoposta ogni donna tenuta sottochiave in quei campi, di bastonate a ogni ora del giorno. Tutto sotto la costante minaccia di morire mitragliati, se non sono le botte a ucciderti. L’unica salvezza è pagare il riscatto, rendere conto attraverso famiglia e parenti di quella cifra che ti è stata arbitrariamente assegnata. Cinquencento, mille, duemila dinari libici, a seconda – chissà – della giornata o del boss di turno. Perché malgrado questi moderni campi di sterminio siano rigidamente organizzati in settori e celle, dove ognuno ha un ruolo in realtà intercambiabile (carceriere, vigilante, picchiatore, vivandiere, riscossore), alla punta della piramide c’è sempre un boss soltanto, uno che tutti riconoscono come capo.
Era così nel 2013, epoca in cui la prima clamorosa strage di migranti a largo di Lampedusa accendeva un riflettore finalmente diverso sul fenomeno della tratta di uomini. Era il 3 ottobre e, all’indomani di quelle 368 morti (quelle quantomeno accertate), mezza Europa si metteva alla ricerca del regista dietro al tragico naufragio, Medhanie Yehdego Mered, il Generale. Lo cercano tutti, compresa la procura di Palermo. La stessa che tre anni dopo porta direttamente dal Sudan un giovane lattaio eritreo, convinta che sia lui: ecco il massacratore, il boss, il trafficante. La stessa che, tra i tanti testimoni che convoca in tre anni di processo in favore di questa tesi, cita anche due esponenti della polizia africana, sui quali non sono mancati dubbi e polemiche. La stessa polizia di cui si legge oggi, nero su bianco, nella nuova inchiesta sul traffico di migranti, con particolare riferimento a quella libica. Solo che questa volta il quadro che ne esce non è esattamente quello di autorità senza macchia. I racconti dei testimoni ai magistrati, infatti, spiegano come nei campi di prigionia libici si può arrivare in tanti modi. «Con l’inganno o la violenza previa vendita da una banda all’altra», ad esempio. Oppure finendo per essere venduto «addirittura da parte della stessa polizia libica».
Da fonti attendibili da citare a processo, nel caso di quella sudanese, a complici dei trafficanti è stato un attimo, o forse no. Sta di fatto che le ultime indagini, inizialmente avviate dalla procura di Agrigento dopo lo sbarco a Lampedusa tra il 5 e il 7 luglio scorso di 59 migranti tratti in salvo dalla Alex & CO., restituisce i nomi e le descrizioni di quei boss che hanno sostituito il Generale, ufficialmente latitante dopo la scarcerazione immediata dell’eritreo processato al suo posto per tre anni. Nomi come quello dell’egiziano Mohamed, «il più terribile di tutti» per Zanga, uno dei migranti che ha raccontato la sua storia ai magistrati. «A causa delle mie rimostranze contro la mia ingiusta detenzione, sono stato più volte picchiato. Ho subito delle vere e proprie torture che mi hanno lasciato delle cicatrici sul mio corpo – racconta oggi l’uomo -. Sono stato frustato tramite fili elettrici. Altre volte preso a bastonate, anche in testa». Ai suoi ripetuti pestaggi, però, non partecipa solo il boss in persona. Ci sono anche i suoi sodali, che a turno sferrano qualche colpo alla vittima di turno. Che, quando gli va bene, sopravvive. Ma c’è anche chi, invece, di botte viene ammazzato.
Mohamed, però, non è l’unico boss riconosciuto. Tra i nomi fatti dai sopravvissuti a torture e viaggi in mare ce n’è anche un altro. Il capo, nei racconti di Diallo, è infatti un libico alto e muscoloso coi capelli brizzolati e senza barba, sempre in abiti civili e con immancabile pistola al seguito. Uno «spietato» che risponde al nome di Ossama. «Picchiava e torturava chiunque, utilizzando anche una frusta», arrivando persino a uccidere senza farsi troppi scrupoli. «Sono riuscito a scappare da quel carcere in occasione di un violento temporale, che ha provocato un affievolimento della vigilanza». Diallo la libertà da Zawyia se la riguadagna così, con l’ennesima fuga. Ma non sono tutti fortunati come lui quando si trovano davanti al capo dei carcerieri. È lui «quello che decide su tutto», ed è anche quello che spesso violenta le donne imprigionate nel campo. Quando non sono le violenze a ucciderti, però, può essere anche la fame. Ai migranti, infatti, è destinato solo del pane duro o, qualche volta, della pasta. Per bere invece c’è l’acqua del mare o, al limite, quella non potabile del bagno.
Mentre il temibile Mohamed, poco più che ventenne, è recentemente passato dall’hotspot di Messina alla galera, il nome di Ossama non c’è tra quelli dei fermati nei giorni scorsi, tra cui figura invece il fratello Ahmed. Ossama è destinato a diventare il nuovo Generale? Cioè l’ennesimo trafficante di uomini che si darà alla macchia dopo aver racimolato a sufficienza coi suoi affari e aver fatto pericolosamente diventare famoso il proprio nome? Nel dubbio, rimane ancora in piedi la descrizione fatta all’epoca del suo predecessore Mered, «organizzatore instancabile di numerosissime partenze di natanti dalle coste libiche, i cui migranti vengono egualmente “agganciati” in Italia dai complici operanti in questo territorio». Un capo riconosciuto e indiscusso di quelle stesse basi dove oggi a fare paura sono altri nomi. «Ho visto cose atroci, indescrivibili», raccontava solo tre anni fa un migrante che era stato imprigionato proprio da Mered. «Io sono stato fortunato che Jamal – un sodale – e Medhanie hanno comprato la mia vita, di tanta gente non si è più saputo nulla, a Grumbli ti torturano fino alla morte o ti rivendono», raccontava ancora, però, sul noto trafficante, di cui oggi si sono perse le tracce.
«Sono il più forte dell’organizzazione», gongolava solo fino a tre anni fa, vantandosi del proprio potere. Si definiva il nuovo Gheddafi, e così come il leader libico si faceva chiamare il Generale. Un ruolo di rispetto che si è conquistato anche grazie alla sua mancanza di considerazione delle vite umane dei migranti che dal Sudan faceva arrivare in Europa. Ad alcuni complici che al telefono gli comunicavano di avere caricato cinquecento migranti su un barcone rispondeva: «Io sono più bravo, ne metto altri cinquecento». «Nella classifica dei criminali legati alla questione dei migranti si colloca tra i primi tre», raccontava all’epoca la procura di Palermo. Che fine ha fatto ora? Qualcuno ha finalmente ricominciato a cercarlo?
«L’ultima volta che io sono riuscito a sentirlo era in Kenya o forse ancora a Kampala, in Uganda», racconta Ali Fegan, giornalista originario di Stoccolma che ha realizzato il documentario Il Generale, in collaborazione col giornalista siciliano del Guardian Lorenzo Tondo, incentrato sulla storia di Medhanie Tesfamariam Behre, per tre anni scambiato per Mered e detenuto al Pagliarelli. «In Svezia ho avuto dei contatti con la moglie di Mered», cioè Lidya Tesfu, sentita anche durante il processo di Palermo, occasione nella quale la donna confermò che l’uomo detenuto non era suo marito, non era il trafficante. «Da lì, poi, abbiamo tentato di trovarlo a Kampala. Era lì, ma non siamo riusciti a vederlo di persona», continua il cronista, le cui ricerche risalgono al 2017. «Onestamente, non credo nemmeno che qualcuno lo stia cercando – dice ancora il cronista, alludendo al vero boss -. Ci sono molti più trafficanti attivi che stanno cercando al giorno d’oggi. In pratica, il vero vincitore di questa tragedia è proprio Mered».
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