È il capitano della nazionale italiana Under 16 di pallacanestro, e ha 15 anni. In realtà ne ha quasi 16 e ne dimostra 25. Vincenzo Provenzani è figlio d’arte e anche coraggioso: non è da tutti, infatti, decidere di tagliare il cordone ombelicale con la propria famiglia e la propria amatissima terra, e andare via. Al Nord. Dove non c’è la pasta al sugo a pranzo e la camicia stirata dalla mamma; dove sei uno dei tanti e non il talento del paesello; dove contano i numeri e le prestazioni. E Vincenzo, calcolatrice alla mano, ha già un bel conto: è un cestista di razza, ma forse diventerà un architetto.
In paese, a Licata, molti ricordano che, al termine delle partite della Studentesca allenata dal padre Dario, tra le linee del parquet si agitava una palla da basket con dietro una chioma di capelli ricci e nerissimi. Era Vincenzo che ballonzolava già in maniera egregia. «Gioco da quando ho cinque anni – dice adesso che guida la compagine azzurra – di mia spontanea volontà: nessuno mi ha obbligato, è che in famiglia siamo tutti malati di pallacanestro». A 14 anni fa la valigia e va a Casalpusterlengo, in provincia di Lodi, poi si trasferisce a Roma, dove vive e gioca tuttora nella Stella Azzurra. In Nazionale è stato convocato per la prima volta l’estate scorsa, in occasione del Trofeo dell’Amicizia in Francia, e poi, raduno dopo raduno, in queste settimane arriva all’EYOF a Tbilisi, in Georgia.
«Ho capito che avrei indossato io la fascia di capitano al penultimo raduno, quando il coach ha iniziato a farmi dirigere il riscaldamento». Il resoconto delle ultime olimpiadi è il seguente: la media di sei punti e sei assist a partita. Vincenzo è un playmaker, ruolo diverso da quello del padre che, ai tempi, era una pregiatissima guardia. «Quando sono in Sicilia mi alleno sempre con mio papà, per stare assieme a lui, per tenermi in forma durante le vacanze, ma anche per migliorarmi. Mi dice di non mollare mai, e che devo perfezionare al massimo il tiro: facciamo sedute che sfiorano anche le tre ore». Si siede accanto a lui un amico d’infanzia; «anche tu vuoi la mia maglia? Mi dispiace, ho solo i pantaloncini: l’ultima casacca l’ho scambiata con una pallavolista».
Ha le idee chiare Provenzani, sogni concreti che non si limitano al basket. «A Casalpusterlengo ho perso un anno di scuola: ero piccolo e mi dovevo adattare. A Roma, invece, ho chiuso il secondo anno con la media del nove». Dice che farà sicuramente l’università con l’ambizione di diventare architetto e di giocare, intanto, in B1 o A2. Dove arriverà non è ancora dato saperlo, ma ha già ricevuto offerte da Siena e Trapani (militanti in A2) e Avellino, squadra di A1. Due procuratori lavorano assieme al padre per farlo crescere sia sportivamente che umanamente, ma Vincenzo ha iniziato a distinguere ciò che conta da ciò che valore non ne ha: «I soldi al momento non sono una priorità per me, negli accordi preferisco pattuire le sedute individuali di allenamento. Voglio diventare un giocatore forte». Sarebbe felicissimo – dice – se ricevesse una proposta dalla Moncada Agrigento; tuttavia, probabilmente è preferibile un team lontano dalla Sicilia, al momento. Per farsi le ossa.
Se un giorno ti chiedessero di fare una campagna di sensibilizzazione, per cosa ti batteresti? «Lotterei contro il doping, senza dubbio. Chi si dopa lo fa per paura di non rendere: è disperato e sfigato». Licata, Vincenzo, ce l’ha nel cuore: «Per me è il posto dei sogni, quando sono fuori ci penso continuamente; i miei coetanei non si rendono conto di quello che hanno qui; sono apatici, non valorizzano la propria terra. Come si può puntare sui giovani se non si danno da fare? Ovviamente generalizzo, io qui sto bene anche con la gente, sono un tipo solare, faccio amicizia con tutti». A Vincenzo, la prossima volta che respirerà l’aria di casa, piacerebbe trovare un campetto pubblico e una nuova edizione del memorial Provenzani, il nonno. Intanto fa stragi di cuori e canestri in giro per l’Italia.
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