Una strada in basolato a due corsie, larghi marciapiede per ogni lato, alti palazzi e tanto traffico, in pieno centro storico, in attesa della metropolitana. E’ il corso Sicilia, «quello che quindici anni fa, almeno di giorno, era uno dei salotti buoni di Catania», ricorda Concetta prima di scappare a comprare le sigarette per il figlio. «Oggi è una zona di bivacco e un dormitorio a cielo aperto per gente scappata di casa», aggiunge un distinto uomo di mezz’età all’uscita dal supermercato, con due grosse buste della spesa in una mano e un sigaro nell’altra. Il colpo d’occhio non mente. I senzatetto sono appoggiati alle vetrine dello stesso supermercato, all’entrata delle numerose banche, dei negozi di abbigliamento, di tabacchi, di telefonia, e stanno anche davanti alle edicole di giornali e ai portoni degli edifici.
«Mischinazzi senza casa» li chiama un arzillo settantenne catanese mentre sistema le verdure sulla sua moto ape, poco distante dal carrello di cover per cellulari, mercanzia di un venditore senegalese. Gli homeless sono tanti seppure distribuiti in piccoli gruppi di tre o quattro al massimo, intenti a conversare tra loro, a canticchiare canzoni dal sapore orientale e lontano o a chiedere la carità. Qualche spicciolo o qualche confezione di biscotti nessuno li nega loro. Hanno zone prestabilite e «se qualcuno a fine giornata trova il proprio posto occupato, ci scappa la rissa e iniziano a volare bottiglie vuote di birra», commenta il portiere di un condominio, un signore pakistano con occhiali da vista troppo grandi.
«La situazione è più complicata di quanto sembra perché i senzatetto sono divisi in due gruppi. Quelli più grandi e più tranquilli che vivono nelle banchine dal lato del supermercato e quelli più giovani e più rissosi che stanno dalla parte della libreria Cavallotto», spiega il commesso di un outlet di abbigliamento. «I primi li conosco tutti, sono qui da quasi sei mesi e ogni tanto ricarico loro pure il cellulare così possono fare qualche telefonata a casa», si commuove l’uomo, pensando che alcuni di loro hanno l’età di suo figlio, ma una vita più difficile.
Sono contrastanti le opinioni di residenti e commercianti di corso Sicilia sulla presenza dei clochard. Alcuni sono mossi da compassione, altri invece lamentano disagi e degrado. «Provo rabbia e schifo soprattutto quando esco dal negozio e mi trovo davanti persone con i pantaloni slacciati che fanno i bisogni nelle cabine telefoniche o che stanno per terra, ubriachi in mezzo alla loro sporcizia», lamenta la titolare di un negozio di telefonia. Tanta la sua delusione soprattutto nei confronti delle forze dell’ordine: «Non fanno nulla per aiutarci», continua. C’è chi vive lì da trent’anni e non sa se si sente più arrabbiato o più impietosito. Come Franco, che esce dall’ufficio postale dentro un cappotto marrone e racconta: «Problemi ne creano tanti. Si sono appropriati del territorio e la sera evitiamo anche di passeggiare perché questo quartiere è diventato l’ultimo posto al mondo dove farlo. Ma – continua – loro sono vittime di un sistema indegno e noi tutti gli lasciamo qualche spicciolo o qualche vestito vecchio per espiare i nostri peccatucci».
Di sicuro c’è stanchezza e rassegnazione negli attori che si muovono ogni giorno in quella porzione di centro storico etneo, perché lì hanno deciso di prendere casa o perché da quelle parti hanno trovato lavoro. «Chiamiamo i vigili urbani un giorno sì e l’altro pure e le ambulanze arrivano più volte durante la settimana perché questi signori bevono troppo e poi si sentono male», racconta la guardia giurata del Banco di Sicilia. A confermarlo c’è il medico anestesista appena giunto per soccorrere un giovane dai tratti nordici disteso sul marciapiede privo di sensi. Anche in questo caso la colpa è dell’alcol.
Dietro di loro, i barboni di corso Sicilia, ci sono tante storie e nei loro giacigli l’intimità di tanti ricordi. C’è chi è stato lasciato dalla moglie, chi ha perso il lavoro, chi aveva il Paese in guerra e chi non sa nemmeno in quale modo è finito a Catania. Ma c’è anche chi della strada ha fatto una scelta di vita. Come il ragazzo ucraino di trentadue anni, con pochi capelli e due occhi azzurro ghiaccio, che dice: «Cos’è vivere normalmente? Alcuni di noi chiedono aiuto ma a me non manca niente, la gente è generosa e mi lascia il cibo che basta per me e per il mio cane». Il suo nome non lo ricorda e si giustifica sorridendo: «Questo è il quarto», riferendosi al litro di vino in cartone che tiene nella mano sinistra a metà mattinata.
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