«A metà strata u pigghiaru e su purtaru. U misiru in una balata e ne ficiro chiddu chi bosero. La mafia ha ucciso mio figlio». Le parole di Felicia Impastato risuonano oggi, a 40 anni da quel 9 maggio 1978, nell’aula civica di Cinisi attraverso il ricordo di Anna Puglisi, fondatrice insieme a Umberto Santino del Centro siciliano di documentazione intitolato proprio a Peppino Impastato. «È stata un’antesignana del femminismo – spiega Puglisi -. Suo padre la voleva sposa di un uomo che lei ha invece deciso di respingere, per sposarne uno che le piace davvero, almeno all’inizio: Luigi Impastato». Come Felicia, sono molte le donne che si sono distinte nella lotta per la verità e la giustizia. «Per molto tempo abbiamo pensato che la prima di tutte, la prima donna parente di una vittima di mafia fosse stata la madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso da Cosa nostra nel ’55 perché stava dalla parte degli operai. In realtà – continua -, abbiamo scoperto che molto prima di lei ce n’erano state molte altre, già nell’800».
Molte delle quali, se non tutte, non avevano certo la consapevolezza che aveva la madre di Carnevale o quella di Impastato. Di lottare cioè contro un’organizzazione criminale ben strutturata, solida, con le sue regole, i suoi dogmi, le sue gerarchie, che risponde al nome di mafia. Anzi, Cosa nostra, per usare l’inciso di Tommaso Buscetta del 1984. «Nessuna di loro sapeva di lottare contro la mafia, ma sapevano di volere giustizia. Una di queste – racconta ancora Puglisi – è stata Peppina Di Sano, una bettoliera di Palermo che possedeva un piccolo supermercato, frequentato dalle persone del quartiere ma anche da molti esponenti delle forze dell’ordine». Scoprì per caso che qualcuno la pagava usando banconote fasulle. Decise allora di denunciare gli episodi alla magistratura. Che, in seguito ad indagini parallele svincolate in realtà dalle iniziative della donna, scoprì una fabbrica di monete false gestita da mafiosi. Il primo pensiero dei responsabili fu che la bettoliera fosse direttamente coinvolta e che fosse scattato tutto a partire proprio dalla sua denuncia. Da qui l’attentato in cui resterà ferita e che ucciderà la figlia, Emanuela Sansone.
Una donna colpita duramente, minacciata e intimidita, persino da altre donne che degli affari mafiosi conoscevano con compiacenza e complicità ogni dettaglio. «E prima di lei ce ne sono state altre ancora. Non tutte donne che hanno direttamente subito una violenza e che hanno quindi voluto chiedere giustizia, ma anche donne che ha lottato per le ingiustizie altrui». Come il gruppo che si costituisce negli anni ’80 attorno alla figura di Giovanna Terranova, vedova del magistrato ucciso nel ’79. Prima di Anna Puglisi, a tenere banco è stata l’appassionata orazione di Umberto Santino. Una lezione, in un certo senso, di storia della mafia e dell’antimafia, dalle primi attestazioni sino ai giorni d’oggi. «Il Comune di Palermo mette a diposizione un palazzo nel centro storico in cui abbiamo intenzione di realizzare un memoriale-laboratorio, composto da un grande percorso museale, una biblioteca, un archivio di documenti con una sezione dedicata a Peppino Impastato e laboratori didattici gestiti direttamente dai docenti – rivela -. La realtà attuale di Cosa nostra è di transizione, perché sono stati inferti dei colpi molto duri all’organizzazione, che si inseriscono però all’interno di un quadro ricco e pieno di contraddizioni».
A dare il cambio ai due fondatori del centro siciliano di documentazione è la professoressa Alessandra Dino, docente di sociologia all’Università di Palermo, che di mafia si è occupata molto, dedicando anche dei libri all’argomento. «Sono tante le discipline che hanno studiato Cosa nostra, ma ogni approccio non può che restituirne un’immagine parziale – dice subito -. Non pretendo oggi di dare una rappresentazione che sia veritiera, ma di fornire un punto di vista, sulla base del suo rapporto col potere». Per la docente, infatti, Cosa nostra si presenta prima di tutto come un soggetto politico che agisce come tale assicurando la sua presenza dentro le rappresentanze istituzionali, inserendosi e manipolando il sistema degli appalti, praticando le estorsioni e soprattutto condizionando la quotidianità dei cittadini. Proprio come ha fatto a Cinisi con l’aeroporto: «Che si trovi proprio in questo territorio è una scelta dovuta alla presenza qui di Gaetano Badalamenti e alla sua volontà di allora di controllare meglio i traffici di droga da qui all’America».
Sono veri e propri stili di governo, quelli che la docente individua analizzando la storia di Cosa nostra. Stili che corrispondono perfettamente allo scenario socio-politico del Paese entro cui, di volta in volta, si sono manifestati. C’è tutto nella sua dissertazione, dalla violenza spettacolare ai depistaggi che ne seguirono, dalle stragi alla trattativa con lo Stato, dall’autorità dispotica di Riina alla visione più strategica di Provenzano. E poi i pizzini, il nuovo volto della mafia, i processi, Scarantino, i fratelli Graviano, le dichiarazioni di Spatuzza del 2008. «Oggi le ibridazioni di mafia e istituzioni, ma non solo, sono tali che mi permetto di chiedermi se possiamo ancora chiamarle semplicemente mafie», chiude la docente con un interrogativo indiretto.
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