Al via il fitto calendario di eventi, convegni e dibattiti in attesa del 40esimo anniversario dell’omicidio del militante ucciso il 9 maggio ’78 da Cosa nostra. Il fratello: «Ci dicevano che la mafia serviva a colmare i vuoti dello Stato. Ma con l’omicidio di mio zio Cesare Manzella, boss del paese, finì tutto, compresa la nostra infanzia»
Cinisi, i ricordi e le lotte della famiglia Impastato «La mafia raccontata come qualcosa di positivo»
«È una lotta giornaliera quella a favore della memoria, è quasi uno sport nazionale ormai quello di cancellarla. Conoscete tutti la storia di Peppino, conoscete meno però i ricordi che ho della mia famiglia». Così Giovanni Impastato ieri pomeriggio nell’aula civica di Cinisi, in occasione dell’inizio del ciclo di convegni e dibattiti organizzati per il 40esimo anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato. «Il periodo più bello e più intenso della nostra vita di cui ho memoria è stato quello vissuto nella tenuta dello zio Cesare Manzella, capo mafia del paese. Proprio mafia e natura, che dovrebbero stare lontani, in quel contesto riuscivano a fondersi benissimo. Ricordo le carezze di mia madre, e poi tutti questi uomini attorno a noi, tutti parenti, tutti mafiosi, persone che non ci facevano mancare niente – racconta -. Finisce tutto con l’omicidio di mio zio. È lì che finisce soprattutto la nostra infanzia, siamo dovuti diventare subito grandi».
Un momento, quello dell’assassinio di Cesare Manzella, ucciso nel 1963 da un’autobomba, che segna inevitabilmente anche una brusca inversione di marcia. E che convince Peppino, che all’epoca ha solo quindici anni, a dedicare la vita intera a lottare contro la mafia, quella che fino a quel momento per lui e per il resto della sua famiglia era stata ben altro da omicidi e autobombe. «La mafia ci veniva raccontata come qualcosa di positivo che colmava i vuoti dello Stato. Ricordo che la gente ci guardava in un certo modo. E poi mia madre era molto innamorata di mio padre, la affascinava, compreso questo suo essere un mafioso – racconta ancora Giovanni -. Quando inizia la lotta di Peppino, però, lei è la prima a rendersi conto che ha ragione, e si rende complice della sua scelta. È lei che poi darà continuità a quell’impegno».
Nei suoi ricordi c’è spazio anche per quel padre, Luigi, che fino alla fine cercò di frenare le scelte del figlio. «Quando viene a sapere dai suoi amici mafiosi che Tano Badalamenti vuole farlo uccidere, va a parlare con i parenti americani per avere protezione da loro. Ma al suo ritorno muore – continua ancora Giovanni -. Non esiste nessun fascicolo su mio padre, eppure siamo convinti che anche il suo sia stato un omicidio. Ucciso perché ha cercato di proteggere suo figlio. E anche se si fosse trattato di un incidente provvidenziale, resta un fatto: che lui non è morto da mafioso, ma da padre di famiglia, da uomo».
Gli fa eco Umberto Santino, fondatore insieme ad Anna Puglisi del Centro siciliano di documentazione intitolato proprio a Peppino Impastato, anche lui in prima linea in questi incontri organizzati in attesa del 9 maggio: «La nottata della memoria non passa mai, perché è una ferita insanabile – afferma -. E scegliere la memoria non è affatto una cosa semplice, e quindi dimentichiamo. Dimentichiamo perché è troppo doloroso. O semplicemente perché ricordare implicherebbe assumerci una responsabilità che in realtà non vogliamo».