“La memoria e il segno”: Montana, Cassarà, Antiochia vent’anni dopo

“Ricordare i morti deve servire a pensare ai vivi”. E’ il 28 di luglio, e sono passati vent’anni da quando Beppe Montana è stato ucciso dalla mafia. Poco più di una settimana dopo, Cosa Nostra decise che era venuto il turno di Roberto Antiochia e Ninni Cassarà. All’incontro “La memoria e il segno”, organizzato dalle associazioni antimafia ”Libera” e  “Fare memoria”,  c’è parecchia gente. Almeno abbastanza da riempire il cortile della Cgil.

 Gli ospiti sono persone accomunate dalla volontà di non dimenticare e non far dimenticare: Emanuele Giuliano, Claudio Fava, don Ciotti, Margherita Pluchino (ex-collega di Montana), Giuseppe Strazzulla di “Fare memoria”.

 

Emanuele Giuliano è il fratello di Boris Giuliano, ucciso nel 1979. E’ la personificazione della memoria, con tutto quello che sa e che ricorda. Mentre parla, si accende di una forza e di una determinazione che il suo fisico non più giovane fa fatica a contenere. “Non dimenticare è un problema etico, perché consente di non coltivare l’oblio dei crimini commessi; ma è anche un problema politico, perché deve tener presente la realtà che ha consentito quei crimini”. I nomi dei morti per mafia lui li ricorda benissimo: Aparo, Francese, Ambrosoli, Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Costa… Nomi che a qualcuno dicono poco o nulla: quasi un bollettino di guerra. E sono solo i morti tra il ’79 e l’80.

 “E’ concepibile che, in una nazione in cui vige lo stato di diritto, in un solo anno abbiano messo lo Stato in ginocchio? […] Ai tempi di mio fratello la Squadra Mobile di Palermo era considerata la migliore d’Italia. Boris aveva seguito dei corsi di specializzazione all’FBI, era in contatto diretto con gli agenti della Dea. Dopo la sua morte, il suo vice non gli successe, ma venne trasferito. La Squadra Mobile venne affidata, assieme alla Criminalpol, a Bruno Contrada. La questura di Palermo rimase senza questore per 3 mesi. Dopo una breve parentesi di un questore che se ne andò subito in pensione, l’ufficio venne affidato a Palmi. Questi, più tardi, risultò iscritto alle liste della P2. Adesso ve l’ho detto un perché.”

 

Per Fava è fondamentale andare oltre il concetto di memoria. Una memoria assuefatta, una mancanza di spirito critico verso quello che accadde in quegli anni, porta ad una silenziosa convivenza con la mafia. “Recuperare il senso delle coincidenze, che è contesto politico”.

 E’ in questa prospettiva che alcuni avvenimenti si rivelano in tutta la loro spudorata aberrazione: la nomina di Meli a capo dell’Ufficio Istruzione al posto di Falcone; il cavalier Cassina, al quale nel 1976 era stato dedicato un capitolo della Commissione Antimafia, che insigniva del titolo di Cavaliere del Santo Sepolcro persone  che avrebbero dovuto rappresentare l’avanguardia della lotta a Cosa Nostra; infine, lo smantellamento del pool antimafia.

 Ma è soprattutto il confronto con l’attualità che rende indispensabile ricordare. Se l’ottusa – o forse maliziosa –  applicazione col bilancino delle leggi aveva già ostacolato Falcone, oggi la storia sembra ripetersi, con la cosiddetta “norma anti-Caselli”: quella cioè che pone un limite d’età all’assunzione di incarichi direttivi, e che gli impedirebbe di diventare capo della procura nazionale antimafia.

 

La lotta alla mafia non è fatta di azioni eclatanti, ma di lavoro duro, quotidiano. “Libera” è l’associazione di don Ciotti che, tra le altre iniziative, affida a delle cooperative le terre confiscate alla mafia. E queste terre producono olio, vino, ma soprattutto lavoro onesto. Perché è attraverso il senso del proprio dovere, del comune senso della decenza e della moralità, della rabbia verso l’ingiustizia, che ognuno di noi deve dare il proprio contributo. Altrimenti si rischia di delegare alla dimensione mitica dell’eroe un dovere che è di tutti. “Sono stati chiamati eroi. Non erano eroi, erano uomini come noi, con i loro problemi, le loro difficoltà. Ma dentro avevano quei valori che gli hanno impedito di fermarsi davanti al pericolo e alla solitudine.”

 La squadra mobile di Palermo, come racconta Margherita Pluchino, aveva pochi mezzi a disposizione: spesso si preferiva usare la propria macchina per gli appostamenti, perché le auto-civetta, scassate, le conoscevano tutti i malavitosi di Palermo. “Avevamo pochi mezzi, niente di paragonabile a quelli di oggi. […] Ma avevamo intuito, intelligenza investigativa, passione”.  E i risultati furono strabilianti. Almeno, fino all’estate del 1985.

 

Su “La Sicilia” del giorno successivo, la ricorrenza del 28 Luglio è finita a pag. 36 dell’inserto “Catania e provincia”: un rettangolo di 6 centimetri per 11. Considerando anche la foto, è forse anche meno di quanto verrebbe dedicato ad una squadretta di calcio. Brevi cenni alla messa commemorativa, la segnalazione dell’incontro alla Cgil. Quello che è stato detto all’incontro, ovviamente, non ci entrava. La memoria, d’altronde, non è solo una capacità: è soprattutto una scelta.


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