LA CITTÀ INVISIBILE/ Cattivi ragazzi

To look on the bright side is suicide: la scritta più grande di tutti, quella che ti colpisce tra il fuoco di colori tutto intorno. L’unica che si riesce a leggere: il resto è un groviglio di emozioni colorate, marchiate a fuoco sulle pareti di un vuoto circolare dove si disegna con lo spray e si balla la break, per riempire un vuoto ancora più grande. Leggi quello che è scritto su quei muri, nel centro di Catania, e ti sembrerà di aver percorso più dei pochi metri che hai fatto coi tuoi piedi. Ma non sono in molti quelli che si fermano a guardare.

Nessuno conosce lo Squib, nessuno vuole conoscerlo, abbarbicato su una lunga scalinata alle spalle del teatro Metropolitan, nel cuore della City. Allo Squib, la notte, quando i colori dei muri e la musica si spengono, ci sono i barboni che dormono per terra tra coperte sporche e pullover scuciti. La sera, invece, è solo un’arena di ragazzacci malvestiti che ballano a ritmo di una musica, chiamata hip-hop, che per tanti è solo rumore. Bombolette svuotate tra i gradini dello Squib, novelle penne di novelli poeti maledetti che versano il loro inchiostro sui muri, i writers. Pantaloni larghi e cappellino d’ordinanza, con su scritto N.Y., New York, che fa più ghetto. Perché l’hip-hop ha la sua cultura, fatta di gesti e parole ma anche di accessori e capi d’abbigliamento. Bandane, fasce, polsini e felpe lunghe fino al ginocchio, zaini e borse oversize, che ormai indossano anche i non adepti sotto lo sguardo geloso dei b-boys. Bad boys, i ragazzi, perché ci tengono a fare sapere in giro che sono dei tipi poco raccomandabili; fly-girls, le ragazze. E allo Squib sono tutti b-boys e fly-girls. Non sono ammessi intrusi, allo Squib.

Loro, i breakers, quasi non li vedi, persi nella ragnatela di braccia e gambe che li imprigiona sopra il loro tappeto di plastica. Ma se per un attimo riuscissi ad afferrarne lo sguardo noteresti solo ostinazione. «Ce l’ho fatta», sembrano dire i loro occhi a ogni movimento ben eseguito: e se qualcosa gira storto ci riprovano. Ancora a terra, ci riprovano. Un pugno sul muro, ci riprovano. Gli altri b-boys guardano meglio adesso, osservano e non ridono. Una pacca sulla spalla: «Ci riprovi dopo, sei stanco». Che tradotto suona come: «Sei finito se non ti riesce, non sei più nessuno». Perché i breakers non lo dicono che sei scarso, ma lo pensano.

Vanno a ballare per divertirsi, ma l’aria tesa che si respira quando ballano profuma di sfida, una sfida contro se stessi, contro gli altri. Avanti un altro: ruota le gambe per aria, appoggiato sulla testa. Lo chiamano elicottero e davvero ci si aspetta di vederlo prendere il volo davanti ai propri occhi da un momento all’altro. Il ragazzo sembra ormai una trottola e nessuno pare chiedersi come faccia. Ma se non avesse il suo fido cappellino con sé (col suo fido cuscinetto dentro) finirebbe dritto all’ospedale, come gli altri. Anche i breakers hanno i loro trucchi, le loro regole, il loro codice. Eccone un altro, altri due, saltellano da un lato all’altro del tappeto con strani rimbalzi, come in un’antica danza rituale. Invece è solo un contest: una sfida, appunto. Uno dei due inizia a breakkare, appena ha finito invita con un gesto l’altro a fare di meglio, senza parlare «perché il bit non s’interrompe, il bit è sacro come il rispetto». Un altro invito, un’altra sfida: non finiranno mai.

Si divertono, ora, mentre intorno gli applausi crescono al ritmo della musica. E la musica batte i rintocchi inesorabili di un orologio. Puoi sentirla pulsare al ritmo dei loro cuori, in modo così distinto che se la musica si fermasse, pensi, cadrebbero al suolo senza più sangue al cuore: bianchi e distesi tra i colori dello Squib. Ma la musica non si ferma e loro continuano a ballare. Ogni movimento studiato per inserirsi nel vuoto lasciato da qualcun altro, sfiorandosi senza mai toccarsi come in un gioco in cui non capisci dove finisca uno e dove inizi l’altro. È uno spettacolo vederli così e, in effetti, qualche metro più giù, nella via principale di Catania, si dice: «Andiamo a vedere i breakers allo Squib».

E arrivano gli altri: ragazze con pantaloni scuri, lunghi e stretti in vita, top allacciati sulla schiena, tacchi alti e pendenti scintillanti d’oro, borsetta a mano di pelle, di quelle così piccole che non ci metti niente dentro; ragazzi con la camicia sbottonata sul petto, cellulare di ultima generazione che emerge dalle tasche, occhiali griffati in testa anche se non c’è il sole. Troppo diversi perché la musica non si fermi. E i breakers pure. Si appoggiano ai muri, indifferenti agli sguardi estranei. Qualcuno ha spento lo stereo. Loro, ora, sembrano a disagio in piedi: sembrano vulnerabili, sembrano ragazzi della loro età che fino a qualche momento prima, semplicemente, ballavano. Braccia incrociate e silenzio: una guerra fredda senza armi né parole. «Non è posto per voi» significa, ma i breakers non lo dicono. I breakers lasciano intendere, i breakers sono orgogliosi, rifiutano di essere fenomeni da baraccone per un pubblico che non li capisce e, fuori dal tappeto, li ignora. È la loro vendetta. E tutto tace, persino i muri, agli occhi ignari degli sconosciuti. Silenzio, fin quando i malcapitati, delusi, ridiscendono i gradini: «Non è nulla di speciale questo Squib». Loro, i breakers non si preoccupano di smentire, sorridono compiaciuti del loro segreto. Riprendono ad intrecciarsi, al riparo da sguardi estranei, mentre la musica suona più allegra per il pericolo scampato.

Ti guardi intorno, e quelle scritte viste prima prendono vita, ballano, s’incastrano anche loro a formare parole con nuovi significati. Diventano dediche, racconti, illusioni: la stessa illusione dei poeti, vivere per sempre. Poco importa se su di un foglio o su di un muro, sotto gli occhi distratti della gente che passa senza guardare, senza fermarsi a capire. Ai writers non importa di essere compresi dal mondo esterno, loro restano lì ad osservarne la superficialità, a ridere della sua noncuranza da dietro un muro. Loro hanno un segreto: si riuniscono nelle crews, moderne fratellanze pronte a proteggere i loro componenti. «Perché se ti crossano un pezzo, se te lo coprono con un’altra scritta, qualcuno la deve pagare», dice Andrea. «Ma i b-boys non sono violenti, non quelli veri», sottolinea. «Se mi fai uno sgarbo, ti vengo a cercare, voglio vedere quello che sai fare e quando l’ho visto, se mi è piaciuto, mi metto da parte. I b-boys quelli più bravi li rispettano, ma se non riesci a dimostrare che hai più stile di me mi fai schifo, non ti tocco neanche con un dito. Sei un faglio, non vali niente, e questo dovrebbe bastare a non farti più tenere una bomboletta tra le mani». Li osservi andar via alla fine della serata, writers con i loro zaini tintinnanti di bombolette, breakers con il loro tappeto sotto braccio. La mattina dopo, nel vederlo, questo posto vuoto, spoglio di suoni e di storie, pensi che senza di loro non esisterebbe. Quelle scritte sui muri, unici resti, sono fantasmi senza voce, una bocca aperta per raccontare qualcosa che resta lì a mezz’aria tra le bombolette vuote e i muri colorati. Passa un ragazzo, guarda lo Squib: «C’è troppo silenzio», sussurra. Aspettando di nuovo la sera.


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