Una serata tra le ‘stelle’

Piazza Umberto I, in una Vizzini ancora incredula che l’estate sia arrivata, quella Vizzini che non sembra mai del tutto sveglia dal torpore di un inverno costante, che si anima di “forestieri” già alle sette e mezza. Li riconosci dai visi sconosciuti che si guardano intorno, dai loro sguardi esploratori che sembrano chiederti “Sicuri che il concerto sia qui? È normale che ci sia così poca gente?”. I padroni di casa, siamo sinceri, non sono completamente coscienti di ciò che sta per accadere. Pensano che in fondo non può essere questo grande evento, se non hanno bloccato le strade e posizionato i posti a sedere sotto al palco. Quei due che provano, lassù, non devono essere poi questi grandi personaggi. È alla comparsa delle transenne e del furgone carico di sedie che le loro certezze iniziano a vacillare. Per le otto la folla è già raddoppiata. I forestieri sono dappertutto, ce n’è in ogni fila. Allora forse è una cosa seria. Oh, crudele e benedetta curiosità: la folla è triplicata, ma composta. Muore dalla voglia di sapere, di sentire, ma guai a lasciarlo anche solo intravedere.

 

Gli artisti non si fanno attendere. Breve discorso del sindaco, fugace presentazione del direttore artistico della manifestazione, e poi via, Philip Glass e il suo pianoforte iniziano le “Metamorphosis”. Le dita sui tasti danno vita a mondi lontani con una facilità estrema, senza forzature. Poi è la volta di Giovanni Sollima e del suo violoncello, due esseri che si incontrano e si scontrano in continuazione, che fuggono l’uno dall’altro per poi ritrovarsi, per scambiarsi nuova linfa vitale.

Glass e le sue inquietudini così semplici da far paura. Sollima e i suoi sospiri, i suoi pizzicati, uno strumento trasformato, attraverso – tra gli altri – “Terra Aria”e “Terra Danza”,  in mille altri, tutti diversi. Fino all’incontro. Due geni musicali che si donano reciprocamente, che si rincorrono fino a catturarsi, ciascuno nella propria rete (“The orchard” è la rete di Glass, “D Raga” quella di Sollima) .

 

La piazza è entusiasta, e neanche dopo il bis sembra sazia. Continua ad applaudire come se non volesse smettere mai, come se non ci riuscisse. I forestieri avevano ragione. Ma noi lo sapevamo. Per questo abbiamo chiesto di poter parlare con gli artefici della magia. E i due artisti non si tirano indietro. Ci fanno un altro grande dono, una conversazione sui gradini del palazzo comunale:

 

Philip Glass: Le dispiace se mi siedo?

 

Step1: Assolutamente no. (È difficile nascondere l’emozione) Dunque…inizierei con il cinema, visto che lavorare alle colonne sonore ha costituito una parte importante della sua carriera. Che differenza c’è tra il comporre musica per un film e, d’altra parte, scrivere in maniera totalmente indipendente?

 

PG: C’è da dire che l’ottanta per cento del mio lavoro lo svolgo per il teatro. Ho composto balletti, opere, composizioni per orchestra, quindi sono abituato a lavorare con molta gente: dai registi ai coreografi, dai costumisti agli scenografi. È una dimensione in cui mi trovo sempre a mio agio.

 

S: E non si sente mai vincolato dalle scelte delle persone con cui lavora? Non si sente privato di parte della sua libertà?

 

PG: No, al contrario. Mi sento più libero nel confronto con altre idee. Quando lavoro da solo divento prigioniero di me stesso.

 

S: Sappiamo che prima di dedicarsi completamente alla musica lei si è laureato in Matematica e Filosofia…

 

PG: …si, ma non ero gran che bravo in matematica. Perciò ho scelto la musica, che invece mi riusciva molto meglio.

 

S: Ma il suo interesse per la scienza è rimasto vivo.

 

PG: Sì, senza dubbio. Ho dedicato diverse opere a dei grandi scienziati.

 

S: A proposito di scienza, dato che proprio oggi l’umanità ha raggiunto un obiettivo storico, la cometa Tempel1 colpita da un proiettile della NASA che ne studierà la composizione, se dovesse scrivere un pezzo su questo evento quale sarebbe il suo titolo?

 

PG: È una buona idea, ma credo che qualcuno abbia già scomposto un pezzo su un argomento del genere. “Worlds and collisions” [“Mondi e collisioni”, n.d.r.]. Questo è il titolo perfetto.

 

S: Qual è il suo metodo di composizione? Le melodie le vengono in mente al pianoforte oppure “risuonano nel suo silenzio” prima che lei le ritrovi mentre suona?

 

PG: In realtà non c’è un metodo. Non accade sempre nello stesso modo. A volte la musica viene mentre sto suonando, altre volte mi coglie impreparato, impegnato in tutt’altro. Ma la cosa importante è che venga. Come una benedizione. Noi musicisti siamo fortunati: la musica viene a noi senza che ce lo aspettiamo, naturalmente.

 

Un’ammiratrice che assiste all’intervista ci chiede di tradurre una sua sensazione:

-Mentre suonava l’ultimo pezzo insieme a Giovanni Sollima, ho avuto l’impressione che il tocco del violoncello rappresentasse una donna molto provocatrice che cercava in tutti i modi di attirare l’attenzione del pianoforte, di trascinarlo con sé nel suo ritmo, senza però riuscirci…

 

PG: (sorride) Non ci avevo mai pensato, ma…sì, mi piace. È una bella interpretazione. In realtà è qualcosa che accade sempre, quando suono insieme a Giovanni. Ci conosciamo da anni, eppure ogni volta mi succede sempre di sentirmi trascinato, imprigionato dal suono del suo violoncello. È inevitabile.

 

Apprendiamo che è stata una bella sensazione, per lui, suonare in questa piazza. «Sono abituato alle esibizioni al chiuso, e soprattutto non avevo mi ero mai esibito all’aperto in Italia: qui suonare sotto le stelle davanti alla facciata di una chiesa o di un palazzo come questo è un’esperienza del tutto particolare, che non ti capita da nessun’altra parte nel mondo. Quando c’è la luna, poi…».

 

S: Domanda di rito, quali sono i suoi progetti futuri?

 

PG: Sto lavorando ad una nuova sinfonia che completerò entro quest’estate, e anche ad una un’opera teatrale. Poi scriverò la colonna sonora per un film. Ho letto la sceneggiatura e ne sono rimasto molto colpito: è la storia di un triangolo amoroso il cui protagonista è un mago…

 

S: …Allora sarà magica anche la sua musica.

 

PG: Ah, lo spero.

 

Quando avviciniamo Giovanni Sollima, scopriamo che lascerà Vizzini appena sarà riuscito a riporre il violoncello nella custodia. (Alla domanda “Allora, Giovanni, hai deciso di rimanere e poi partire domani?” di un suo collaboratore risponde: “No, beh…io…nella notte andrò”). Ma il tempo per un paio di domande non ce lo nega. (“Ti dispiace se parliamo mentre sistemo lo strumento?”).

 

Step1: Lei e Glass siete entrambi artisti “cosmopoliti”, per così dire: traete ispirazione da realtà che anche solo fisicamente sono molto lontane tra loro. In quale “luogo musicale” Giovanni Sollima incontra Philip Glass?

 

Giovanni Sollima: Dove ci incontriamo? Beh, io e Philip abbiamo qualcosa che ci accomuna e allo stesso tempo ci divide. È l’ipnosi del suono. Lui la vive in un modo diverso dal mio, ma che in qualche maniera ci si incastra, è complementare. Io traggo grande ispirazione dalla musica del Nord e del Centro Africa, lui è stato in estremo Oriente e molta della musica è influenzata da quegli umori. Poi ci siamo incontrati a New York e lì abbiamo capito che avevamo molto da darci l’un l’altro. È la curiosità patologica che non abbandona mai né me né lui.

 

S: Non è facile vedere un violoncellista così morbosamente attaccato al suo violoncello da farci l’amore, a tratti, e farci la guerra un attimo dopo. Come definirebbe il rapporto con il suo strumento? È una lotta?

 

GS: In realtà lo è e non lo è. È una lotta ed il suo esatto opposto. Senza dubbio sono strettamente legato al mio strumento, perché lo uso sia per comporre che per suonare. Poi il violoncello occupa inevitabilmente l’ottanta per cento del tuo corpo, quando lo suoni. Perciò è come un essere vivente. Gli strumenti sono degli esseri viventi, ma vivono solo se li animi, se ti dai a loro con tutto te stesso.

 

 

 

Un grazie particolare alle professoresse Anna Reitano ed Emanuela Abbadessa. E a Marcello.


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