Il rock lingua franca tra generazioni

Francesco Virlinzi è ancora on stage. Stavolta la mostra fotografica “LIVE ’80” – con la sua vertiginosa miscellanea di generi e stilemi: da Dylan a Bruce Springsteen, dai Rolling Stones a Prince, da Jackson Browne a Tracy Chapman, per finire con U2, Talking Heads, Water Boys e gli immancabili R.E.M. – torna stranamente incorniciata nello “spazio museale” delle ex Cucine del Monastero dei Benedettini. Una sede più ufficiale non si poteva scegliere, l’università di Catania ha voluto rendergli omaggio, perché?

Certo, guardando quelle immagini, continuiamo a chiederci come facesse questo ragazzo catanese, munito soltanto delle credenziali della sua duplice passione per la musica e la fotografia, a infiltrarsi durante i soundcheck, a convincere diffidenti impresari e inflessibili guardaspalle ad ammetterlo nell’area dei V.I.P. e a permettergli di fotografare dal palco. Chissà quale carica di entusiasmo, simpatia e mediterranea improntitudine c’è voluta. Veramente incredibile. Ma questa è semplice curiosità, il discorso è un altro.

Perché è un dato di fatto che negli ultimi vent’anni – il tempo che ci separa dalle foto di Virlinzi – nessun’altra cosa, né il cinema, né la letteratura, né tanto meno gli impeti ideologici, hanno assunto  quanto la musica rock il carattere di un “canone”; cioè di una costellazione di classici comune a tutti, prescindendo dalle generazioni di padri e figli (e di nonni). Lo spettacolo delle volpi d’argento sul palco planetario del Live 8 è stato soprattutto questo: brand di consolidata fama e tradizione che si ripresentano, rispolverati per far apprezzare alle giovani generazioni la potenza dei “classici”, sessantenni applauditi anche dai ventenni.

Il rock lingua franca concettuale e simbolica per le nuove come per le vecchie generazioni forse è l’etichetta sotto la quale archiviare una società priva in realtà di generazioni dai ruoli forti, nella quale oltretutto “essere giovani” è diventato un riferimento a prescindere dall’età anagrafica. Certo, di musica nuova ce n’è. Ma quella universale, quella che suona in infinite e nostalgiche rivisitazioni di un recente passato divenuto eterno presente, è solo quella rock (pop, più che rock, ma l’etichetta è assai elastica). Si tratta di una questione piuttosto spinosa su cui è difficile fornire un parere definitivo, e nella quale inciampano (o meglio precipitano) tutti i reportage dedicati ai modi e alle mode delle ultime generazioni, tutti i servizi che si affannano a raccontare il meraviglioso mondo dei giovani.

La mostra di Francesco Virlinzi assume anch’essa il ruolo di ponte tra le generazioni. Quanto aiuta il remake dei classici? E quanto, invece, inibisce l’emergere di veri innovatori, quelli che dovrebbero diventare i classici di domani? In assenza di nuovi suoni, disturbanti e affascinanti, le nuove generazioni sbandano? La creatività  ristagna? Il riflusso avanza? Il dubbio è legittimo. Eppure rimaniamo consapevoli che la musica che abbiamo attraversato è soprattutto la musica che ci ha attraversato. Resta perciò la speranza che il riferimento al passato possa costituire un laboratorio di idee. E che resti vivo il ruolo che ha avuto il rock: dare alle nuove generazioni la speranza o l’illusione di essere diversi dai padri.

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“LIVE ’80, le immagini dei concerti che hanno fatto la storia del Rock fotografate da Francesco Virlinzi”: Monastero dei Benedettini, area museale delle ex Cucine, dal 6 al 16 marzo. Ogni mattina dalle 10 alle 13 e pomeriggio dalle 15.30 alle 19 (chiusa il sabato pomeriggio e la domenica).


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