Caso Mered, una petizione per l’uomo in carcere Il promotore: «Lui è una vittima dell’ingiustizia»

«Lui è innocente». È questa la frase che si rincorre senza sosta da venerdì scorso sulla piattaforma Change.org, attraverso cui è stata lanciata una petizione indirizzata al governo italiano per chiedere la scarcerazione dell’uomo detenuto da giugno 2016 al Pagliarelli con l’accusa di essere Il Generale, uno dei peggiori trafficanti di uomini degli ultimi anni. Venticinquemila firme per restituire la libertà a un uomo che da tre anni, ormai, grida non solo la sua innocenza, ma anche il fatto di essere rimasto vittima di un terribile scambio di persona. Il detenuto, attualmente sotto processo davanti alla seconda corte d’assise di Palermo, ha sempre dichiarato di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre e di essere un falegname eritreo in procinto di iniziare, come molti altri connazionali, il lungo viaggio prima per il deserto e poi per il Mediterraneo, passando per le prigioni libiche. Circostanza confermata a più riprese, in questi anni, dai famigliari dell’uomo in carcere e dai suoi amici. Ma anche da chi non conosce direttamente lui, ma il trafficante Medhanie Yehdego Mered, dalla moglie al fratello, che non hanno riconosciuto l’uomo sotto processo.

«Conosco molto bene questo ragazzo – commenta un utente che ha firmato la petizione -. Quando ero a Khartoum gli ho tagliato i capelli tre volte, è un bravo ragazzo e lui è innocente, non è un trafficante di esseri umani. Hanno lo stesso nome, ma non il cognome». Medhanie, insomma, sarebbe stato uno dei tanti fattori che avrebbe contribuito a creare il cortocircuito fatale. «Si trova in carcere per motivi ingiustificati – scrive il promotore della petizione, Elias Arefaine -, un’azione totalmente inaccettabile e brutale contro i diritti umani fondamentali». Lui è uno strenuo sostenitore dell’innocenza dell’uomo rinchiuso al Pagliarelli, malgrado non lo abbia mai conosciuto personalmente. Ma tanto gli basta per spendersi in favore della sua storia e sostenere che «non ha mai partecipato al traffico di esseri umani», ribadendo che le accuse a suo carico sono infondate. «Ho visto Medhanie Yehdego Mered una volta in Sudan, e non aveva la faccia dell’uomo che è in carcere al posto suo – racconta a MeridioNews -. È uno dei motivi per cui ho deciso di aiutare Behre». L’incontro con quello che sarebbe, a suo dire, il vero trafficante, risalirebbe al 2012, ma non sarebbe stato un incontro faccia a faccia tra loro. Non ci sarebbe stata alcuna presentazione ufficiale, nessuno scambio di battute.

«Non l’ho incontrato personalmente, ma me lo ha indicato un mio amico, che ha aggiunto che lui si occupava di queste cose», vale a dire di traffico di uomini. Anche se, a sentire Elias, quello di Mered all’epoca «non era un nome in realtà molto conosciuto ancora, lui era più che altro un collaboratore, un assistente». Come se stesse facendo una sorta di tirocinio o apprendistato con chi già era un trafficante a tutti gli effetti e poteva quindi insegnarli il mestiere. «Ho davvero molte conoscenze eritree che conoscono il vero trafficante Medhanie Yehdego Mered, loro sanno bene che quello in carcere è l’uomo sbagliato». Chi sono? Dove si trovano? E perché nessuno, tra le tante forze speciali e autorità scese in campo per dare la caccia al Generale, ha mai pensato di cercarli, di stare a sentire la loro versione anziché lasciare che il dubbio viziasse l’intero processo? A rilanciare in questi giorni la vicenda che ha per protagonista l’uomo al Pagliarelli sono anche i suoi famigliari e i suo amici. «Lui è arrivato in Sudan ad aprile 2015, dove è rimasto fino al 24 maggio 2016», ricorda sui social proprio in questi giorni un ex coinquilino dell’uomo in carcere, Habtu Jerry.

«Improvvisamente è stato arrestato per errori commessi dall’autorità sudanese, solo perché il suo nome era lo stesso di un trafficante, che la polizia ha cercato per tanto tempo. È stato preso da una zona che si chiama Diem, a Khartum. Non sapeva perché l’avevano preso, non parlava la lingua araba, quindi non era in grado di dire che non era la persona che la polizia doveva arrestare così lo hanno consegnato all’Italia», prosegue l’amico, che chiede ai connazionali di firmare la petizione. «Possiamo aiutarlo a essere libero, perché è in prigione da tre anni. Siete tutti invitati a condividere e a salvare la vita di questo nostro fratello». Mentre la petizione, intanto, ha già raccolto in pochi giorni poco meno di ventimila adesioni. 

Silvia Buffa

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