«Sono andato in un internet cafè e lì ho visto quella foto: ritraeva mio fratello appena sceso da un aeroplano fra due ufficiali di polizia. I notiziari dicevano che lui era il trafficante di esseri umani più ricercato». Inizia così il racconto di Noh Tesfamariam, fratello di Medhanie Tesfamariam Berhe, l’uomo che secondo lui è detenuto per errore al carcere Pagliarelli di Palermo con l’accusa di essere il pericoloso boss della tratta Yedhego Medhanie Mered, ritenuto responsabile del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. I due fratelli crescono insieme ad Asmara, fino a quando Medhanie non lascia casa e decide di trasferirsi in Etiopia. È il novembre del 2014 e insieme a una sorella si sistema nella capitale, Addis Abeba. Ma è un’alternativa che dura per poco. Perché nel 2015 è la volta di Khartum, in Sudan. È qui che le autorità inglesi lo arrestano nel 2016, convinti di aver preso uno dei peggiori trafficanti di morte di questi anni. Quando sia esattamente avvenuto lo scambio di persona ipotizzato dalla famiglia dell’uomo attualmente detenuto qui e dal suo legale Michele Calantropo, resta ancora oggi il punto più oscuro dell’intera vicenda. Se davvero in prigione si trovasse l’uomo sbagliato, quand’è che questo errore si sarebbe compiuto? Già al momento dell’arresto oppure subito dopo, nelle prigioni africane?
Di questa vicenda Noh Tesfamariam rimane all’oscuro, fino a quando non riceve la telefonata di un conoscente. «A giugno mi ha chiamato un amico, mi disse che aveva visto mio fratello sui notiziari, era stato arrestato in Italia. Sono tuttora scioccato, deluso, nervoso», racconta a MeridioNews. Da quel momento iniziano le ricerche, gli approfondimenti, soprattutto le domande, molte delle quali ancora senza risposta. «Tutte le informazioni scritte fino ad ora non descrivono mio fratello – prosegue Noh – Hanno detto che lui è Medhanie Mered, ma non lo è. Hanno detto che è un trafficante, ma ancora di più non è nemmeno questo. Hanno detto che ha 35 anni, ma è ancora lontano dal compierli». E l’uomo che emerge dai suoi racconti di fratello, in effetti, appare notevolmente distante dal ritratto costruito in aula dai magistrati palermitani. «Tra fratelli e sorelle, in tutto siamo sette – racconta ancora Noh – In Eritrea ha lavorato come falegname e, prima ancora, in un caseificio». Ad aiutarlo economicamente ci sono anche i fratelli che adesso vivono negli Stati Uniti e che progettano di portarlo lì con loro. Le umili origini e lo stile di vita sono uno dei motivi per cui Noh Tesfamariam è convinto che il fratello detenuto non abbia mai nemmeno avuto occasione di conoscere il vero boss che si presume sia ancora in libertà: «Io rifiuto fortemente di credere che loro si siano anche solo conosciuti – precisa infatti – Neppure io conosco Mered, non potrei essere in grado di dire qualcosa su di lui».
Per i due fratelli vedersi e comunicare è ad oggi abbastanza complesso. «Fino ad ora il nostro unico tramite è stato l’avvocato, il ponte fra lui e il resto della famiglia – dice Noh – Ci tiene informati ed è a lui che stiamo dando tutti i documenti che riguardano mio fratello, sin da quando era bambino». Michele Calantropo, infatti, continua a battersi soprattutto perché venga fatta chiarezza in primis sull’indentità dell’uomo trattenuto al Pagliarelli. È per questo che nelle ultime due udienze di dicembre ha depositato del materiale nuovo, compresa la testimonianza resa da un giovane eritreo detenuto a Roma e che il giudice di corte deciderà se ammettere al fascicolo o meno. Nel racconto reso agli inquirenti, l’eritreo chiuso al Rebibbia parla del vero boss Mered, che individua anche in alcune foto. Nelle immagini, però, ad essere ritratto non è l’uomo che oggi si trova a Palermo. «Questa è una buona notizia alla fine – aggiunge Noh – Per la prima volta ci sono dei magistrati che iniziano a credere che sia stato arrestato l’uomo sbagliato».
Malgrado la speranza e il conforto costante della fede, i familiari di quella che potrebbe essere la vittima di un clamoroso scambio di persona restano tuttavia in preda alla preoccupazione, acuita enormemente dalla distanza geografica: «Non so perché si continui a perdere tempo, lui non può essere lasciato in carcere. Non si può seppellire la verità – prosegue ancora Noh – Sono mesi che ignorano la sua innocenza, mesi di violenze psicologiche». Se da Palermo, infatti, le notizie sullo stato di salute del detenuto sono rassicuranti, non si può dire lo stesso del suo stato mentale, motivo principale di preoccupazione di Noh Tesfamariam: «Mio fratello non ha fatto nulla che giustifichi questa detenzione o l’attribuzione di una tragedia come quella avvenuta a Lampedusa nel 2013 – conclude l’uomo – Immagino che si senta inquieto, stressato e che avverta questa situazione come un’ingiustizia. Davvero, non capisco perché i magistrati siano così riluttanti ad accettare la realtà».
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