Caso Mered, i radicali incontrano il giovane detenuto «Non può ancora parlare al telefono con la madre»

«Voglio essere chiamato con il mio vero nome». Con queste parole il giovane eritreo rinchiuso ormai da due anni nel carcere Pagliarelli di Palermo con l’accusa di essere Mered Medhanie Yehdego, uno dei boss della tratta di esseri umani dall’Africa all’Europa, ha accolto gli esponenti del Partito Radicale, tra cui Rita Bernardini, membro coordinatore del partito e Donatella Corleo, durante il loro sopralluogo al carcere palermitano. Una visita fortemente voluta quella al detenuto eritreo che da sempre sostiene di non essere Mered, il trafficante, ma Medhanie Tesfamariam Behre, profugo scappato dall’Eritrea verso il Sudan con l’intento, come molti connazionali, di far rotta verso l’Europa in cerca di maggiori fortune e che si ritrova invece protagonista di un processo che pare senza fine, nonostante diverse prove – ultima delle quali quella del Dna, non compatibile con quello del figlio di Mered – prodotte dalla difesa a carico della tesi del giovane. 

«Ha quasi trent’anni, ma ha la faccia di un bambino – dice a MeridioNews Rita Bernardini –  Fortunatamente ha un compagno di cella eritreo che conosce la sua lingua e anche lui ha imparato qualche parola. Ci teneva molto a che lo si chiamasse con il suo vero nome e credo che tutto sommato sia stato contento che qualcuno si stia interessando alla sua vicenda, aveva con sé tutti i ritagli di giornali che riguardano la sua storia». E finalmente pare che il giovane, prelevato dal Sudan senza documenti né denaro, potrà anche beneficiare di un po’ di soldi. «In tutti questi anni di detenzione – continua Bernardini – non ha mai lavorato e proprio ieri sera, in presenza della direttrice del carcere e del comandante gli è stato detto che tra una settimana avrà finalmente la possibilità di farlo. E questo significa avere anche la possibilità di avere un po’ di denaro, perché non ha di che vivere». Parole confermate dal legale dell’eritreo, l’avvocato Michele Calantropo, che ha parlato anche della possibilità che il ragazzo possa frequentare all’interno del carcere un corso di italiano.

Con gli esponenti del Partito Radicale inoltre il detenuto «si è lamentato del fatto che non può parlare al telefono con la madre – prosegue ancora il membro coordinatore del partito – perché stanno ancora facendo accertamenti sul numero telefonico mentre può parlare con una delle sorelle e lamenta anche il fatto che non gli siano mai arrivate le lettere dei familiari». Il motivo, secondo Calantropo, potrebbe essere relativo al fatto he le missive sono scritte in tigrino e che quindi necessitano di una traduzione prima di essere consegnate al destinatario.


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