Cannizzaro, trenta ore d’attesa per un piede diabetico «Da un reparto all’altro senza esito, siamo andati via»

Due intere giornate spese all’ospedale Cannizzaro. La prima in attesa di una visita al Pronto soccorso. La seconda in due reparti diversi – una lista d’attesa dopo l’altra – prima per un controllo e poi per una radiografia. Che alla fine non è stata fatta, rimandando il paziente al centro unico delle prenotazioni. Sono gli ultimi due giorni di un cittadino 59enne, diabetico da qualche anno, che deve fare i conti con i disagi a un piede tipici della sua malattia. Normalmente tenuti sotto controllo e curati da un apposito ambulatorio del nosocomio catanese, temporaneamente chiuso per via dell’assenza dell’unica dottoressa che se ne occupa. Un presidio di eccellenza, a sentire chi lavora in ospedale e anche chi si è trovato a usufruirne da malato. «Lo dico in premessa – precisa la figlia del paziente – la medica che segue mio padre fa un lavoro straordinario e noi ci siamo sempre trovati benissimo. Il problema è sorto adesso che quel piede diabetico, come può accadere, dà qualche problema e lei non c’è».

La vicenda, in realtà, comincia alcune settimane fa. Una piccola vescica peggiora fino a diventare una fistola. Dopo un po’ di tempo di cure con gli antibiotici di routine, «la situazione non è migliorata, finché venerdì è successo qualcosa: si è creato un grumo di pelle e ha cominciato a uscire del pus. Il rischio è che questo grumo arrivi in superficie e chiuda la ferita, impedendo che si veda quello che succede sotto». Non una situazione straordinaria, ma fino a questo momento sempre curata in ambulatorio. «La dottoressa interviene con un bisturi, ci vogliono pochi minuti, disinfetta ed eventualmente fa un tampone per eventuali infezioni». Una procedura alla quale chi soffre di piede diabetico è abituato e che di norma viene fatta tramite il personale specializzato.

«La medica che ci segue è l’unica a occuparsi di questo, quindi ci sono volte che si ferma anche molto dopo la fine del suo turno per continuare a visitare i pazienti». La professionista, però, non può passare ogni giorno dell’anno in ospedale. E poiché si tratta di una patologia cronica, con visite programmate e nessun rischio di vita per i pazienti, quando la dottoressa non c’è l’ambulatorio può chiudere. Lunedì mattina, per via del pus che aveva cominciato a uscire nel fine settimana e che non migliorava neanche con gli antibiotici, la donna e il parente si presentano dal medico generico. Che consiglia loro di recarsi al Pronto soccorso. «A questo punto arriviamo al Cannizzaro e ci assegnano un codice verde». Cioè una situazione non critica, che non deve essere trattata con urgenza. «Vediamo alternarsi due turni e, intorno alle 23.30, dopo più di dieci ore di attesa, entriamo in ambulatorio e ci viene detto che l’unico che può intervenire, forse, è un chirurgo vascolare. L’ambulatorio era chiuso e saremmo dovuti tornare il giorno dopo».

Così si arriva a ieri mattina, alle 8.30. Dopo le dimissioni, viene dato loro un documento in cui si consiglia di proseguire la terapia all’ambulatorio vascolare. «Ci era stato detto di passare dal pronto soccorso, lo abbiamo fatto e ci hanno indicato l’ambulatorio – continua la parente del paziente – Lì abbiamo atteso tutte le visite che erano state prenotate, perché chiaramente la nostra non era un’urgenza e, intorno alle 12, finalmente riusciamo a entrare». Anche là il medico spiega di non potere fare molto. «Ci comunica che non avrebbe rimosso il flemmone, visto che l’infezione era sotto controllo e che non era il suo campo – aggiunge la donna – Ci dice però che dobbiamo cambiare il trattamento e sostituire il vecchio antibiotico con uno meno blando, fa il controllo alla circolazione e ci prescrive una radiografia al piede, per un accertamento. È a questo punto che finiamo di nuovo al pronto soccorso».

Decimi in lista d’attesa, ovviamente in codice verde. «Nonostante ci sia stato detto da un medico interno che mio padre doveva fare l’Rx – prosegue il racconto – Doveva essere comunque un medico del pronto soccorso a inviarci in Radiologia. Col rischio che il reparto chiudesse e che dovessimo tornare ancora una volta domani». «Stamattina (ieri per chi legge, ndr) alle 11.46 erano 24 ore esatte». Alle 19, quando padre e figlia lasciano il pronto soccorso, sono diventate 32. «Ma senza radiografia e senza certificato di dimissioni». Perché? «Abbiamo deciso di finirla. I pazienti prima di noi erano diventati 14, abbiamo tentato di capire come fosse la situazione e un’infermiera ci ha spiegato che il medico che ha visitato mio padre all’ambulatorio vascolare avrebbe potuto farci la radiografia senza rispedirci al pronto soccorso. Dopo un’altra attesa ci hanno detto che, comunque, non trattandosi di una priorità da Pronto soccorso loro non avrebbero potuto trattarla e che quindi dobbiamo andare dal nostro medico, farci prescrivere i raggi e prenotarli telefonicamente».  

«Quando abbiamo chiesto di andare via, ci hanno spiegato che per le dimissioni avremmo dovuto comunque aspettare il nostro turno. Aspettare altre ore era, francamente, impensabile. Così ce ne siamo andati. In base ai tempi che ci darà il servizio delle prenotazioni, valuteremo se tentare la radiografia in ospedale o rivolgerci a un privato». Nel frattempo, però, restano i due giorni spesi tra i corridoi e le stanze del Cannizzaro. «Mi domando solo se questa cosa si poteva evitare, se c’era un modo per non fare due giorni di attesa inutile. Cosa che comunque non fa bene a nessuno, figurarsi a una persona che deve seguire una terapia e che non sa quanto deve attendere e perché. Per poi vedersi rimandare a casa senza novità».

Luisa Santangelo

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