Borgetto, il Tar rigetta il ricorso degli ex amministratori «Corretti i presupposti che portarono allo scioglimento»

«Plausibile l’ipotesi di una soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata». Così la prima sezione del Tar del Lazio, che ha rigettato il ricorso presentato dall’ex sindaco di Borgetto e dal suo vice, Gioacchino De Luca e Vito Spina, e da altri ricorrenti. Un ricorso contro il Consiglio dei Ministri, il ministero dell’Interno, la prefettura di Palermo e la relazione finale redatta dai suoi commissari. Quanto emerso dalle verifiche aveva convinto la prefetta di Palermo Antonella De Miro a firmare l’atto di scioglimento del Comune, quello del 3 maggio 2017. Ma, mesi prima, diverse erano state le conclusioni a cui giungeva la procura di Palermo, che ha invece sostenuto l’inesistenza di un patto politico-mafioso tra gli esponenti dell’amministrazione comunale e i boss locali. Un corto circuito che potrebbe ora trovare finalmente una soluzione, con la decisione del Tar.

Adesso, fra prefettura e procura di Palermo, si inserisce la sentenza dei giudici amministrativi, che parla a sua volta di una soggezione dell’amministrazione locale di allora, che spaziava dai vincoli di parentela o affinità, ai rapporti di amicizia o di affari, circostanze che secondo il Tar assumono rilievo «pur quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione». Il provvedimento contro cui ci si è opposti, insomma, avrebbe per il giudice Carmine Volpe «correttamente individuato la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano l’adozione del provvedimento stesso, evidenziando, con argomentazione logica e congruente, la sussistenza di una significativa rete di collegamenti e vicinanze, dalla quale si è logicamente inferita l’esistenza del condizionamento».

Un quadro che nel complesso non viene intaccato né depotenziato, da quanto si legge nella sentenza, dalle singole contestazioni mosse dagli ex amministratori comunali, e che non contribuiscono a scalfire «i profili di forte e decisa valenza rivelatrice dei collegamenti esistenti tra gli amministratori locali e la criminalità organizzata e dei conseguenti condizionamenti». A spingere l’ex sindaco e gli altri a chiedere l’annullamento del decreto che disponeva lo scioglimento del Comune erano state diverse ragioni. Parlano infatti di «difetto di motivazione – eccesso di potere per travisamento dei fatti – contraddittorietà intrinseca ed estrinseca dei fatti posti a fondamento dell’adozione della misura straordinaria – illogicità e ingiustizia manifesta». Secondo i ricorrenti insomma non ci sarebbe stato «un adeguato supporto probatorio tale da giustificare l’adozione del provvedimento impugnato».

Mancherebbero, secondo loro, elementi concreti e inequivocabili che dimostrerebbero collegamenti diretti o indiretti con la mafia locale. E denunciano piuttosto «l’enfatizzazione data a singole vicende, che ritiene in sé prive di specifica concretezza e univocità probatoria in ordine alla sussistenza di un concreto condizionamento degli organi elettivi dell’ente locale». Contestano «travisamenti dei fatti ed errori nell’istruttoria, a conferma dei vizi di difetto d’istruttoria e di motivazione, di contraddittorietà con gli atti di indagine e di eccesso di potere per illogicità». Ragioni che, per i giudici amministrativi, non sono bastate per accogliere il ricorso e dare ragione agli ex amministratori. Rimane intanto il paradosso che lascia, indelebile, un alone di ambiguità sull’intera vicenda, che vede contrapposti da una parte i magistrati palermitani, che nel 2016 parlano di «nessuna acquisizione probatoria che provi il dolo», e la prefettura, che nel 2017 decreta l’azzeramento dell’amministrazione per infiltrazione della criminalità organizzata. Conclusioni in netto contrasto seppur partite dall’esame di uguali episodi ed elementi. 


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