Bolzoni e Agnello, Cosa nostra di ieri e di adesso «Anche il semplice rapinatore diventa capomafia»

«Palermo è una città in cui fa caldo dieci mesi su dodici, ma quando sono arrivato io nel maggio del ’79 solo due locali avevano i tavolini fuori, si preferiva stare rintanati dentro. Ora invece è una festa, la cultura è cambiata moltissimo». A parlare è il giornalista Attilio Bolzoni, ospite del terzo appuntamento organizzato dalla Questura di Palermo per raccontare gli anni delle stragi e le reazioni della città, in un percorso che culminerà sino al venticinquesimo anniversario della strage di via D’Amelio, il 19 luglio. «Il sentimento di paura 25 anni fa era molto forte in questa città. E questa paura non riguardava solo i poliziotti, ma tutta una serie di persone che avevano scelto da che parte stare. E andava di moda una parola: coordinamento – continua – A Palermo c’era un coordinamento per necessità: poliziotti, finanzieri, carabinieri e giornalisti dovevano per forza scambiarsi informazioni». 

Il suo primo pezzo di cronaca nera per il giornale L’Ora Bolzoni lo scrive, solo un paio di mesi dopo, il 21 luglio. Quando arriva in via Di Blasi è disorientato, non capisce subito cosa sta accadendo. Accanto alla saracinesca abbassata del bar Lux ci sono i colleghi più grandi che piangono. «Un aspetto inedito per me – dice – Era un giornale comunista ma i miei colleghi piangevano per un poliziotto». Steso a terra infatti c’è Boris Giuliano, il capo della Mobile. Leoluca Bagarella lo fredda alle spalle con sette colpi di pistola, mentre sta pagando il caffè. «Oggi sul giornale firma collettiva», dicono a Bolzoni. Non volevano fare sapere all’esterno chi scriveva cosa, per non mettere a rischio alcuni colleghi in particolare che si erano occupati da vicino di Cosa nostra. I morti continuano, lui lascia il giornale ma decide di occuparsi ancora di mafia. «Palermo è una città che è cambiata su quei morti, e ce ne sono stati tanti. E l’elenco era incompleto considerando che io ero arrivato nel ’79, i morti c’erano stati anche prima – dice – Un’escalation che ha rappresentato un’anomalia assoluta per noi, una bizzarria della criminalità organizzata, che per la prima volta faceva un assalto armato allo Stato. Ho paura che le cose siano tornate all’antica, quando tutto è a posto e accadono cose che non si vedono».

Un presagio inquietante, tuttavia, Bolzoni è ottimista: «Penso che questa sia la città italiana che è cambiata di più e in meglio in questi 25 anni – dice – Il percorso è stato doloroso, faticoso, ma ciascuno c’ha messo una piccola pietra. Non si cambia sventolando bandiere o usando parole d’ordine. La città è cresciuta qui dove le ferite sanguinano ancora e le cicatrici non si sono mai chiuse. Penso ad altre città, oggi infestate dalla mafia e senza anticorpi, che Palermo invece ha». Poi il monito: «Abbiamo sempre detto che la mafia cambia pelle. Noi alle cose ci arriviamo, ma sempre col fiatone, loro invece sono abili e veloci. Forse – conclude – non siamo stati sufficientemente bravi, ancora una volta, a capire quei mutamenti. Giornalisti compresi». 

Seduto accanto a lui, nell’atrio della Questura, c’è Maurizio Agnello, sostituto procuratore della Dda di Palermo. «Me la ricordo ancora la faccia di mio padre, magistrato anche lui, quando uccisero il suo capo, il procuratore Gaetano Costa – racconta Agnello – Oggi non riesco a immaginare che un mio collega magistrato possa venire ucciso, per me è una cosa impensabile». Considerazione che innesca la necessità di trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni quello che Palermo ha vissuto in quegli anni bui. Malgrado certi episodi di 25 anni fa oggi appaiano così lontani da noi e dal nuovo volto della città, l’attenzione deve rimanere alta. «È vero che si può parlare di allarme scarcerazioni – spiega il magistrato – I vecchi che tornano fuori perché hanno finito di scontare la loro pena e che trovano una situazione diversa, stravolta. Una realtà in cui, oggi, anche il semplice rapinatore diventa un capomafia. E questo mi consola però, significa che c’è inesperienza. Quello che realmente mi inquieta e spaventa di più, invece, è quando un capomafia che ha imparato a essere moderno dà una lezione a chi ancora non ha capito come evolversi. Allora lì ho di nuovo paura». Il prossimo appuntamento sarà il 5 luglio con Lirio Abbate e Roberto Alajmo.

Silvia Buffa

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