Biagio, il film di Scimeca per opporsi all’egoismo «L’incontro col missionario che mi ha cambiato la vita»

Da Placido Rizzotto a Biagio, il regista del Palermitano Pasquale Scimeca continua a raccontare figure di speranza in un’isola che appare spesso disperata. Con la sua ultima opera si concentra su Biagio Conte, missionario laico el capoluogo siciliano che con la Missione di Speranza e Carità ha dato vita al più grande centro di accoglienza per i poveri e gli emarginati del sud Italia. Abbiamo incontrato Scimeca durante le tappe del suo tour siciliano per mostrare il film in anteprima e gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Biagio Conte è una persona, non mi piace dire personaggio, già di per sé molto allettante dal punto di vista cinematografico. A lei cosa ha colpito di più di lui?
«Per me l’incontro con Biagio è stato molto importante, per la mia vita prima ancora che per il mio cinema. La sua figura è determinante per il nostro tempo. Con questo saio, con questa povertà estrema che vive e predica, sembra un retaggio medioevale. Invece per me rappresenta il futuro».

In che modo?
«Perché è riuscito a coniugare in sé tutte le grandi crisi del nostro tempo: il problema della spiritualità, che noi abbiamo espulso dalla nostra società; il rapporto con la natura e l’eremitaggio col quale ci ha insegnato che la natura sta da una parte mentre noi stiamo dall’altra. L’uomo contro la natura diventa un problema e in certi posti, come Gela, i cittadini ne sanno qualcosa».

E poi c’è l’attenzione e la cura verso gli ultimi, verso i diseredati, i più poveri. Su questo aspetto che idea si è fatto?
«Biagio ci insegna che stare vicino ai poveri, anzi essere poveri perché la sua non è una predicazione ma un esempio, è un modo per dare e trovare serenità. Lui lo dice sempre e ne sono convinto anch’io: quando dai, quello che doni ti torna indietro, sotto forma di pace interiore».

Secondo te il modello di accoglienza di Biagio Conte è un modello che può funzionare altrove o ci vogliono prima altri Biagio Conte?
«È chiaro che la sua figura unifica. Il problema è un altro: è capire che l’accoglienza e la solidarietà non sono cose che uno fa a tempo perso, ma sono elementi fondanti della propria esistenza. Può esistere un modello culturale diverso, non legato necessariamente alla religione, con valori opposti a quelli imperanti adesso che ci vengono propinati e che sono quello dell’arricchimento e dell’egoismo». 


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