Libriamoci, Mattia Insolia: dalla Sicilia al Premio Strega

A chi è affamato, che il mondo l’ha lasciato senza niente. Venite fuori tutti, vi prego, e distruggete i falsi idoli, razziate le grandi città, respirate la nuova aria. Infine, appagate i vostri desideri. A chi è affamato, che il mondo l’ha lasciato senza niente, adesso io dico: saziatevi.

Giovedì 31 marzo le classi dell’I.I.S. Leonardo, nel Comune di Giarre, in provincia di Catania, hanno avuto l’occasione di incontrare Mattia Insolia, scrittore catanese che, col suo romanzo d’esordio Gli affamati (Ponte alle Grazie, 2020), si è guadagnato – a buon diritto – un posto tra gli autori finalisti al Premio Strega 2021. A moderare il dibattito, la bibliotecaria Teresa Sciacca e la prof. ssa Gabriella Gullotta, con l’approvazione della dirigente Tiziana D’Anna.

Il romanzo di Insolia è una denuncia al degrado di un Mezzogiorno scomodo a se stesso, che inghiotte e rigurgita le vite dei suoi abitanti, una per una, stroncandone progetti, ideali, valori. Antonio e Paolo sono fratelli. Non immaginano il futuro, vivono alla giornata da quando la madre li ha abbandonati alle cure di un padre violento, deceduto poco dopo. Ma il passato, si sa, ha spesso il brutto di vizio di invalidare il presente. Così, alla porta dei due fratelli, di punto in bianco torna a bussare la madre. Torna, e con lei arrivano anche ricordi, esperienze, vecchi amici e nuovi amori. Tornano ansie, colpe, paure. Vuoti che si espandono e non lasciano spazio a niente. Ti abbrancano la gola e la trascino giù. Giù con tutto il resto. 

Antonio agognava un cambiamento, e quel lavoro sarebbe potuto essere un buon inizio, ma gli si rivoltava lo stomaco all’idea di abbandonare ciò che aveva. All’idea di abbandonare quei polmoni catramosi, quelle dita sporche di grasso e polvere, quegli occhi carichi delle oscenità a cui avevano dovuto assistere. 

Alle domande dei ragazzi, Mattia risponde: «Ho iniziato a scrivere subito dopo la laurea. Non sapevo che fare, mi trovavo in una zona d’ombra. Ero arrabbiato perché non avevo idea di quale fosse la direzione che avrei dovuto dare alla mia carriera lavorativa. Vivevo in una città chiusa, incapace di offrirmi le opportunità di cui avevo bisogno. Avevo fame di certezze, volevo fuggire dove la vita bruciava davvero […]. In stallo, ho raccolto le emozioni che provavo, ho messo tutto nero su bianco, rabbia, sgomento, indecisione: tutto. È così che è nato questo libro, è così che sono nati Antonio e Paolo. Camporotondo non esiste ma potrebbe essere ovunque, un sobborgo qualsiasi, un rione tra i tanti, il tuo […]. Io non ho inventato la cattiveria, lo sfascio della periferia; l’ho solo raccontato. Niente di assurdo, niente di nuovo. Credetemi, si impara molto più dagli esempi negativi che da quelli positivi. Il dolore, se elaborato, è un ottimo maestro». L’incontro, atto ad avvicinare i ragazzi al mondo della narrativa contemporanea, sembra aver sortito l’effetto sperato: il confronto con l’autore, tra l’altro giovanissimo (ventisette anni e tanta voglia di cambiare il mondo), si è presto trasformato in un energico botta e risposta con gli alunni delle classi coinvolte, un confronto energico e dinamico in sfregio alle ipocrisie del politically correct

Perché in fondo siamo tutti un po’ affamati, e ci si sfama anche a scuola. Un passo dopo l’altro, poco per volta, insieme. Non esistono tabù.


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