Il ruolo del padre nel rapporto con i figli autistici Neuropsichiatra: «Anche i superpapà vanno aiutati»

«Li abbiamo definiti i super papà che si occupano di tutto ma lasciano da parte la sofferenza che vivono nel frattempo. Il super papà è un ruolo che non consente di accedere a contenuti più intimi, perché il coinvolgimento nel fare e nel dover decidere per ottenere risultati ha invaso ogni possibilità che ci sia uno spazio dove manifestare i vissuti più profondi, non necessariamente quelli dolorosi e sofferenti, ma anche solo i propri». Così Andrea Pagnacco, neuropsichiatra infantile e psicoanalista dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), tratteggia il profilo psicologico dei papà dei bambini con disturbi dello spettro autistico che in pandemia hanno iniziato a riunirsi nei gruppi di ascolto e supporto psicologico istituiti per loro dall’IdO. Pagnacco, in qualità di conduttore dei gruppi, ha raccontato questa esperienza in occasione della seconda giornata del 76esimo congresso della Società italiana di pediatria, in corso fino a oggi.

L’Istituto romano ha un approccio globale ai disturbi dello spettro autistico perché, oltre all’individuazione del profilo di sviluppo di ogni bambino, prende in considerazione anche il suo ambito familiare (i genitori), ludico-ricreativo e scolastico. Per i papà «il gruppo diventa un appuntamento distensivo, fisso e periodico – racconta lo specialista – i padri si incontrano due volte al mese per 90 minuti e si parte sempre dal racconto di quello che accade nella vita quotidiana durante le due settimane che distanziano le sedute». Una delle difficoltà più grandi sta nella capacità di essere «costanti nella presenza alle sedute – precisa lo psicoanalista – proprio a causa del ruolo “concreto” che questi padri si sono autoassegnati».

Nelle storie dei genitori ritorna spesso lo stigma: «Raccontano la vergogna o il timore di essere guardati con sospetto al parco, al supermercato o al centro commerciale. Spesso rinunciano a vivere alcuni spazi in famiglia – continua Pagnacco – smettono di andare al ristorante e finiscono per privare la diade genitore-bambino di un’esperienza significativa». Nell’ambito familiare, i temi più dolorosi riguardano soprattutto le aree della comunicazione, dell’alimentazione e le atipie comportamentali. «I padri non sempre riescono a comprendere le modalità di interazione dei figli, perché alcuni comportamenti si discostano a tal punto da quella che loro percepiscono come efficacia comunicativa, che fanno fatica ad attribuire una valenza significativa a un determinato comportamento messo in atto dal figlio. Una situazione che provoca in loro dolore, rabbia e vergogna – chiarisce il neuropsichiatra – essendo difficile sintonizzarsi con quella modalità che il bambino gli propone ed essere così un’interfaccia tra il figlio e il mondo esterno».

Durante le sedute, poi, si fa strada la preoccupazione per «il ritardo dello sviluppo linguistico dei figli a fronte di una difficoltà a comprendere altre modalità di comunicazione». Ma non solo, «anche la selettività alimentare genera sconforto, perché oscilla dal diventare un momento frustrante e di conflitto con il bambino, fino a una resa incondizionata in cui i genitori accontentano il piccolo nelle sue particolarità». Il bambino finisce per mangiare «solo determinati cibi, tanto che alcuni genitori continuano a frullare tutto pur in assenza di difficoltà di masticazione».

«Può capitare che i papà inizino a domandarsi che tipo di figli siano stati, che tipo di rapporti hanno avuto con le loro famiglie di origine, qual è il modello a cui fanno riferimento e come questo riemerga all’interno della relazione con il bambino. C’è chi si riconosce nelle modalità del proprio padre – spiega il neuropsichiatra dell’IdO, conduttore dei gruppi – e chi invece racconta quanto abbia faticato a staccarsi da un modello anaffettivo e meno coinvolgente per sviluppare una relazione mediata dal corpo. È interessante riflettere su quanto il modello transgenerazionale abbia vissuto delle modifiche negli ultimi trent’anni – ricorda Pagnacco – perché è avvenuta una modifica sostanziale con cui oggi i papà si relazionano con i propri bambini». Infine le difficoltà di coppia. «All’inizio i padri mostrano difficoltà a parlare della loro relazione con le compagne, tendono a custodire le loro storie. Poi nel tempo riescono a tirar fuori le crisi coniugali, le difficoltà nella relazione e nel supportarsi reciprocamente o nel capire quando è il momento di appoggiarsi all’altra persona».

Il lavoro del terapeuta, in questo caso, si orienta proprio nel «costruire una cultura del papà non solo come colui che risolve i problemi e riesce a occuparsi delle cose concrete – sottolinea Pagnacco – ma anche come qualcuno che necessita di momenti propri, di poter esprimere la sofferenza, di poter attingere dalla compagna le risorse necessarie per fare un passo in avanti e sperimentare spazi propri sia con il bambino che con se stessi. In questo modo tutto risulta meno faticoso e può essere vissuto in maniera più armonica». Il ruolo del pediatra non è secondario: «Può coinvolgere i papà dai primissimi momenti in cui incontra il nucleo familiare, come se la figura del padre possa divenire più attiva, al di là del ruolo istituzionale, sin dai primi giorni di vita del bambino».

Il lavoro con i padri non è un ambito nuovo per l’IdO, che ha recentemente pubblicato la ricerca Capacità di sintonizzazione e caratteristiche paterne nelle relazioni di cura in presenza di bambini con diagnosi di autismo sull’International Journal of Environmental Research and Public Health. Lo studio è stato condotto su un campione di 30 padri di bambini presi in carico presso l’IdO con diagnosi di autismo. Dall’analisi dell’interazione nel gioco, i risultati mettono in evidenza nell’80% dei padri una carente capacità di sintonizzazione, che si accompagna a una scarsa presenza di gestualità corporea nello scambio con il bambino e un’altrettanto carente capacità di comprendere i suoi stati mentali. Dunque i padri nelle interazioni con il bambino mostrano difficoltà nel rispondere in modo appropriato nel qui ed ora

Tuttavia questa sarebbe una condizione comune a quasi tutti i genitori, anche a quelli dei bambini normotipici, secondo Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell’IdO: «La difficoltà di comprendere i comportamenti dei propri figli è una regola generale – conferma lo psicoterapeuta dell’età evolutiva – ma nell’autismo i padri sono in una situazione ancora più complicata. Questi genitori cercano di trovare delle soluzioni per dare una risposta alle richieste dei figli che, purtroppo, non sempre sono in grado di comprendere ed è chiaro che la non comprensione genera un comportamento non coordinato». Ciò che conta veramente, fa presente Castelbianco, «è che il padre provi a giocare con il figlio. Se c’è l’intento di giocare si può sempre cambiare e i risultati arrivano con l’impegno». A detta dello specialista, però, questo «non è un problema dei genitori ma di noi esperti. Per anni è valso il diktat che il comportamento atipico del bambino debba essere eliminato – ricorda Castelbianco – e per eliminare quel qualcosa che dà fastidio si giunge a qualunque tipo di intervento, senza domandarsi prima se quel comportamento abbia una spiegazione e una motivazione. I cosiddetti esperti si basano spesso su una diagnosi fatta esclusivamente sui sintomi, senza capire cosa si nasconda dietro questi segni espressi dal bambino».

È invece fondamentale «aiutare il genitore a comprendere perché il figlio si comporta in quel modo – chiosa il direttore dell’IdO – non è un capriccio, né è colpa dell’autismo, spesso è determinato da altre situazioni e il coglierle permette alla madre e al padre di muoversi in modo migliore con più risultati». Anche per le madri l’IdO ha attivato due percorsi di supporto: «Lo psicodramma per condividere con altre mamme quei vissuti comuni che fanno ancora più male se restano dentro senza essere elaborati – conclude Castelbianco – e la terapia diadica con il lavoro terapeuta-mamma-bambino, per favorire una dinamica relazionale sempre più comprensibile».


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