Riflessioni di un albergatore in tour tra le camere vuote

Qualche giorno fa, come molti miei colleghi albergatori, ho salutato il mio ultimo cliente che ha completato il suo soggiorno. Un residuo delle scarne prenotazioni di ottobre, mese in cui già l’incertezza aveva smorzato gran parte degli spostamenti. Agosto, settembre e in parte luglio avevano un po’ riacceso una speranza dopo la chiusura – non per legge ma di fatto – cui eravamo stati costretti da marzo a metà luglio. Nello stesso momento in cui ho salutato il mio amato ospite, la mente ha ripercorso le conseguenze, ormai già note, di quell’azione. La cassa integrazione per i miei collaboratori, il messaggio a tutti i nostri fornitori della sospensione dei loro servizi e la ricerca delle parole giuste da dire al locatore per far capire che i ritardi che ci saranno nei pagamenti non deriveranno dalla mia incapacità ma da circostanze che non possono, almeno quando avvengono con questa frequenza e portata, essere sopportate dalla seppur oculata gestione dell’azienda. Ciascuna delle mie azioni avrà delle conseguenze economiche a cascata su una filiera importantissima di aziende e lavoratori che parteciperanno con me così al sacrificio. E proprio questo concetto di sacrificio mi spinge ad alcune doverose e dolorose riflessioni.

Il nostro Paese ci chiede grandi sforzi ma, ancora una volta, lo chiede asimmetricamente solo a una parte degli italiani. Paradossalmente, infatti, l’assurdo sistema sperequativo che privilegia i contratti ai dipendenti pubblici fa sì che ci sia una protezione totale per categorie che di fatto (uso ancora una volta questa espressione per evidenziare come la stessa situazione generi conseguenze opposte) diminuiscono la loro attività o non la svolgono del tutto, con copertura totale dello stipendio, mentre a tutto il sistema privato e imprenditoriale vengono chiesti enormi, e a volte insostenibili, sacrifici. La risultante di questa frattura nel Paese si evince dal diverso approccio al problema sanitario arrivando a tifoserie opposte, spesso, purtroppo, con derive che non giovano a nessuno. Forse, a questo punto, non ci si potrebbe cominciare a porre il problema di come fare partecipare anche l’altra metà del Paese al problema? Magari immaginando un sistema di solidarietà che spalmi il peso della crisi su una piattaforma collettiva più armonizzata, secondo il forse banale ma giusto principio “mal comune, mezzo gaudio“?

La seconda asimmetria va rilevata, ahimè, nelle istituzioni. Proprio mentre a metà degli italiani si chiede una straordinaria capacità di sopportazione, si mette in scena il più sconcertante teatrino in cui le istituzioni centrali fanno una scelta e quelle regionali la contestano, con reciproche accuse. E, in quel preciso momento, le code delle ambulanze davanti a tutti i presidi ospedalieri suggeriscono una realtà lontana e spesso più grave e sconnessa dalle tragicomiche rappresentazioni offerte dalla politica. In questi casi, l’amara sensazione che ci deprime è legata alla constatazione che, il più delle volte, gli attori che si rinfacciano le colpe per le scelte attuali sono gli stessi che hanno drenato per 20 anni dal sistema sanitario italiano gli anticorpi che avrebbero aiutato oggi la collettività a sconfiggere questo male. Prima e con meno vittime.

Un’ultima riflessione riguarda la politica degli aiuti. In questo caso, pur ringraziando tutte le istituzioni per ciò che hanno fatto, purtroppo non posso non rilevare l’insufficienza e in alcuni casi l’ingiustizia legata a questi interventi. Insufficienza perché pensare di ristorare con piccole percentuali di fatturato perso senza guardare i costi fissi e senza ponderare su base annua, ottiene risultati poveri. La riflessione sull’ingiustizia riguarda, invece, gli aiuti basati sull’indebitamento. In questo caso, il paragone mi sembra il mezzo più efficace: quel tipo di aiuto, per esempio, sarebbe come privare i dipendenti pubblici (politici inclusi) dello stipendio per un anno e poi suggerire che, in cambio di quel reddito, potrebbero avere garanzie statali per un mutuo. Ecco, qui sta lo spartiacque sociale della crisi, il più indigesto dei segni del baratro che separa in due il nostro sistema Paese.

Non avendo mai amato, da imprenditore, i problemi senza soluzione, provo a dare un piccolo contributo in termini di idee per porre qualche correttivo:

Contributo straordinario di solidarietà a carico dei dipendenti pubblici, commisurato al reddito e a esclusione delle categorie sanitarie, da addebitare in busta paga per tutto il periodo della crisi.

Aumento dei contributi a fondo perduto per tutte le aziende colpite dalla crisi fino al ristoro dei costi fissi sostenuti nei periodi in cui gli incassi si sono ridotti o azzerati con ponderazione basata sul fatturato degli anni precedenti.

Imposta patrimoniale progressiva con la possibilità di detrazione dal carico fiscale ove investita in titoli di debito italiano a interessi zero per almeno 15 anni. Questo per dare anche alle categorie che hanno accumulato e possiedono rendite la possibilità di mettere il dito nell’acqua calda insieme agli altri patrioti designati.

Contributo straordinario di solidarietà a carico di tutte le aziende che con la crisi stanno vedendo lievitare i loro fatturati, con speciale attenzione alle grandi multinazionali del digitale.

Ci sarebbero tante altre idee ma non posso dilungarmi oltre, dunque mi concentro su un’ultima cosa: chiederei la pace istituzionale, chiederei ai Guelfi e ai Ghibellini di capire che in questo momento il Paese sta facendo uno sforzo enorme anche per continuare a pagare ogni mese i loro lauti e puntuali stipendi e l’ultima cosa a cui vuole assistere è la sterile, inconcludente e rumorosa polemica quotidiana in cui le grida di aiuto non vengono conseguentemente ascoltate.

Con enorme affetto per il mio Paese,

Salvo S.


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