Antoci, l’indagine informale dell’ex commissario Ceraolo I dubbi su Manganaro, ma i due mai messi a confronto

Un po’ come se dopo il fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone le indagini fossero state affidate al commissariato di Mondello. Il paragone si fa largo nella relazione sul caso Antoci per rimarcare la scelta della procura di Messina di affidare alla Squadra mobile e al commissariato di Sant’Agata di Militello l’inchiesta su quello che dai diretti interessati, su tutti l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, era stato definito «uno degli attentati più studiati nella storia degli attentati di mafia». Ma le particolarità sulla gestione investigativa non finiscono qui. A essere chiamato a lavorare, seppure sotto traccia, non sarebbero stati solo gli agenti del capoluogo e quelli di Sant’Agata, parte dei quali direttamente coinvolti nel presunto agguato del maggio di tre anni fa, ma anche un altro uomo, il cui nome era già finito sui giornali per i dubbi sollevati attorno a ciò che è accaduto sulla strada che da Cesarò porta a San Fratello. Si tratta di Mario Ceraolo, all’epoca dirigente del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto.

La novità è emersa dal documento approvato dalla commissione regionale Antimafia, secondo cui l’ipotesi di un attentato mafioso è quella meno plausibile. Ceraolo sostiene che a chiedergli di dare un contributo alle indagini sarebbe stato l’allora procuratore capo di Messina Guido Lo Forte. «Il dottore Lo Forte usava, prima di entrare in conferenza stampa, fare un briefing nella stanza del questore – mette a verbale Ceraolo -. In quell’occasione, il procuratore ha detto rivolgendosi a me e al questore: “Vediamo se il dottore Ceraolo come al solito ci può illuminare su questa vicenda magari attivando le sue fonti“». A quell’invito Ceraolo si sarebbe mosso cercando riscontri sia all’interno degli ambienti vicini alla famiglia mafiosa di Barcellona e ai clan attivi sui Nebrodi, che sollecitando esponenti delle forze dell’ordine in servizio fuori dalla Sicilia. Il risultato sarebbe stato lo stesso: «Mi dicono che la mafia non c’entra nulla con questo attentato, mi dicono è una babbarìa, una cosa della politica», avrebbe riferito Ceraolo agli inquirenti. 

L’ex dirigente di polizia sostiene di essersi confrontato ripetutamente con i magistrati titolari delle indagini sull’attentato ad Antoci, i pm Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio. Un’attività di intelligence informale, richiesta sulla base dell’esperienza professionale di Ceraolo. A negare tutto però è Cavallo, oggi a capo della procura di Patti. «Io assolutamente non ho mai chiesto alcun consiglio al dottore Ceraolo nè tantomeno Di Giorgio», ha affermato, derubricando a battuta l’eventuale invito fatto da Lo Forte. Quest’ultimo è stato invitato dalla commissine, ma ha rifiutato l’invito a presentarsi in audizione.

Dal canto suo Ceraolo, ascoltato in due occasioni diverse, ha passato in rassegna tutti i passaggi che, a suo dire, dimostrerebbero la fragilità della ricostruzione fatta da Manganaro – il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello, che raggiunse Antoci proprio negli attimi dell’attentato – e dagli uomini della scorta. «Vi è una prassi che è stata violata in maniera aperta, è quella di allertare, quando succede un fatto così grave, tutti gli uffici territoriali – spiega -. Bisognava uscire tutti. C’è stata una tentata strage, non si deve muovere nulla, si iniziavano a fare le perquisizioni. Tutta questa attività è assolutamente mancata nella fase iniziale. I sopralluoghi all’interno del bosco andavano fatti subito alla ricerca di tracce importanti a largo raggio. Con un intervento massiccio di forze di polizia, anche a distanza di venti minuti, di mezz’ora, dal bosco non usciva assolutamente nessuno». 

Ma le perplessità riguardano anche altro. A partire dalla dinamica dell’agguato. «Ricordo la foto che c’era su internet della macchina con i tre fori delle fucilate e io dissi: “C’è differenza rispetto a quello che invece mi raccontò Manganaro in una conversazione“». Ceraolo spiega di avere da subito sostenuto che i colpi fossero partiti dall’alto verso il basso. Tesi diversa rispetto a quella di Manganaro, per il quale chi ha premuto il grilletto si trovava al di sotto del livello della carreggiata. I due ne parlano al telefono, anche se Manganaro davanti alla commissione riferisce di una chiamata ricevuta di «cinque, dieci secondi, per solidarietà». Dai tabulati però risulta che la telefonata fu fatta da Manganaro. «Si raffreddò quando chiesi: “Avete trovato bossoli?”. E lui mi disse: “Perché non lo sai? La doppietta non espelle i bossoli”. Io chiedo a Daniele: “Scusa la doppietta? Ci sono tre colpi. Come fa la doppietta a sparare tre colpi?”».

Le incongruenze tra i due, che sarebbero stati anche in cattivi rapporti per via delle rispettive ambizioni professionali legate alle promozioni, si fanno ancora più forti quando Ceraolo dice ai magistrati di avere saputo da Tiziano Granata, poliziotto che viaggiava con Manganaro, che quest’ultimo aveva iniziato a sparare in direzione del bosco. «Io non ho visto nessuno», gli avrebbe detto Granata all’indomani dell’agguato. Parole che l’agente però non usa quando ricostruirà la scena davanti agli inquirenti.

Nel corso dell’audizione di Ceraolo c’è spazio anche per un aneddoto: un incontro che avviene a dicembre 2015. «Manganaro era venuto nel mio ufficio perché avevano ricevuto delle buste con alcune cartucce per pistola dentro, una indirizzata al commissariato e una indirizzata alle guardie Parco del Parco dei Nebrodi. Poi si disse che era una minaccia per il Presidente Antoci e per il dottor Manganaro», ricorda. E aggiunge di essere rimasto perplesso dal tipo di minaccia: «In pratica nella busta l’indirizzo era scritto al computer e la minaccia era scritta ritagliando delle lettere – dice alla commissione – Nel corso di questo incontro che ho avuto con Manganaro ho detto: “Fate attenzione, allargate un po’ il vostro orizzonte investigativo su questa busta delle cartucce, su queste minacce che arrivano ad Antoci e a Crocetta perché la mafia non opera così».

Ceraolo, davanti alla commissione, si spinge ancora più in là e tira in ballo una serie di episodi, legandoli tra loro a un filo rosso: «Dissi: “Ma com’è possibile che qualunque iniziativa è sempre affiancata da un centro operativo degli anonimi?”». L’ex dirigente del commissariato, oggi legale dell’associazione antiracket di Tano Grasso e l’anno scorso designato assessore a Messina da Dino Bramanti, è un fiume in piena: «Feci riferimento alla candidatura del presidente Crocetta, quando arrivarono le lettere minatorie, settembre 2012, indirizzate a Crocetta e Lumia. Nel momento in cui il senatore Lumia adottò delle iniziative sul porto di Palermo, lettera di minaccia al senatore Lumia e al direttore della Dia dell’epoca, Giuseppe D’Agata, che poi venne arrestato nell’indagine su Montante. Al presidente dell’Associazione nazionale costruttori – continua Ceraolo – venne mandata una lettera identica a quella indirizzata ad Antoci e Crocetta. A luglio 2016, la dottoressa Brandara, questioni sulla nomina all’Irsap e arriva la lettera. È stato un susseguirsi di iniziative che riguardano queste persone o persone nominate da Crocetta. Appena svolgono un certo ruolo, tutto è accompagnato da atti intimidatori». 

Parole pesanti che, secondo la commissione, avrebbero meritato quantomeno un faccia a faccia tra Ceraolo e Manganaro davanti ai magistrati. Il confronto però non c’è mai stato e della versione di Ceraolo non c’è traccia nel decreto con cui il giudice per le indagini preliminari Eugenio Fiorentino ha accolto la richiesta di archiviazione fatta dalla procura. «I confronti possono avere un’utilità tra persone di bassa preparazione e di basso livelloha chiosato il procuratore Cavallo all’Antimafia – Fare un confronto tra due soggetti estremamente lucidi, estremamente sagaci, sarebbe stata, mi creda, veramente una perdita di tempo».


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