Mafia, la fortuna di Saro D’Agosta con i videopoker Benedizione della Stidda e legami con Cosa nostra

«Nel giro di qualche anno è diventato padrone di mezza Vittoria. Ha più soldi lui che il banco dell’Unicredit». L’iperbole è del collaboratore di giustizia Giovanni Ferma. Siamo ad aprile del 2013 e l’uomo, un tempo esponente della Stidda, usa queste parole per descrivere ai magistrati l’ascesa di Rosario D’Agosta, 65enne a cui ieri è stato confiscato un patrimonio da 25 milioni di euro, comprensivo di beni situati non solo a Vittoria ma anche nel Varesotto, provincia della Lombardia in cui negli anni Settanta si era stabilito per lavorare come operaio nel campo edilizio. La fortuna però, D’Agosta, la fa in un settore del tutto diverso: i videopoker

Stando alla ricostruzione degli inquirenti, che hanno trovato pieno accoglimento nelle aule del tribunale, D’Agosta è stato tra i primi nel Ragusano a fiutare il business che si muove tra il lecito e l’illecito. Tra macchinette regolari e altre truccate. Gli anni Novanta volgono alla fine, quando D’Agosta inizia a installare i primi apparecchi in un locale di Scoglitti, a pochi passi dal mare. Prima di farlo, però, avrebbe chiesto l’autorizzazione dei clan. In particolare, l’uomo sarebbe andato proprio da Ferma. «Venne a cercarmi come un’autorizzazione, un permesso, dove poter piazzare alcune macchinette – mette a verbale, oltre tre lustri dopo, il collaboratore di giustizia -. Siccome questo giro allora già interessava a noi, avevo detto a Saro di stare fermo e non piazzare nessuna macchinetta». Il via libera, tuttavia, alla fine arriva e per D’Agosta si aprono le porte del successo. Gli affari vanno bene a tal punto da consentirgli di diventare protagonista di numerose compravendite immobiliari, nonostante al fisco i redditi dichiarati siano sempre esigui. Il massimo viene registrato nel 2009: poco più di 12mila euro.

Quello è un anno particolare per D’Agosta. A maggio, l’uomo è protagonista di un’aggressione nei confronti di Giuseppe Doilo, un altro esponente della Stidda. D’Agosta usa una pistola. Dall’arma partono più colpi che raggiungono Doilo al gluteo e alla mano. In primo grado viene condannato per tentato omicidio, ma successivamente la sentenza viene riqualificata in lesioni dolose e, dopo un annullamento della Cassazione, in lesioni colpose, con i giudici ermellini che dichiarano di non doversi procedere per difetto di querela. Ciò che, invece, non viene mai messo in discussione è il contesto in cui tutto avviene: la violenza sarebbe stata l’epilogo di una resa dei conti. Pochi giorni prima, infatti, D’Agosta in compagnia di un altro uomo aveva schiaffeggiato Giovanni Cirmi – anche lui stiddaro e, in seguito, passato a collaborare con la giustizia – perché ritenuto colpevole di avere rubato, per due volte, all’interno di un chiosco che ospitava i videopoker. Cirmi, a quel punto, avrebbe chiesto aiuto a Doilo e a una terza persona per vendicarsi. Il 13 maggio, i tre fanno visita a D’Agosta, mentre si trova in compagnia del fratello e della persona che aveva assistito allo schiaffo. Ne nasce una rissa che si interrompe solo con il sangue. 

Per magistrati e giudici, quell’episodio e le persone coinvolte sono la prova di come D’Agosta, dopo il primo avvicinamento alla Stidda, si sia legato a Cosa nostra. Il business delle macchinette, d’altronde, è un affare su cui mettono le mani anche le famiglie mafiose catanesi. A spiegarlo è, ancora una volta, il collaboratore Giovanni Ferma. «A Vittoria tutto il giro delle macchinette ce l’hanno tutti i milanesi (i Cursoti, ndr), a parte Santo u Carcagnusu, i Santapaola e compagnia bella, tra cui Saro. Per questo giro, è uno di quelli appoggiati dai catanesi».

Nel 2016, D’Agosta finisce nuovamente sotto i riflettori della procura. Viene condannato per minaccia aggravata dal metodo mafioso per una vicenda accaduta due anni prima. Ancora una volta, a essere preso di mira è Giovanni Cirmi che, nel frattempo, aveva avviato il dialogo con i magistrati. Una sera l’uomo viene avvicinato mentre si trova nelle campagne di Vittoria, nascosto. Da qualche settimana, infatti, Cirmi aveva lasciato la comunità dove si trovava ai domiciliari per via delle minacce subite da un esponente dei Cursoti. Stando a quanto emerso durante il processo, Cirmi si imbatte in D’Agosta, mentre quest’ultimo si trova alla guida di un suv. «Cornuto e sbirro, fermati che te la devo fare pagare. Ti devo uccidere», è la frase che avrebbe pronunciato l’imprenditore. 

Tali comportamenti hanno consolidato la tesi dell’appartenenza di D’Agosta a Cosa nostra. E per quanto non sia stata accertata un’attuale pericolosità – il giudice ha rigettato la richiesta di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno – nessun dubbio si ha sull’origine illecita del patrimonio accumulato da D’Agosta: i guadagni sarebbero frutto della contiguità con la criminalità organizzata. E a nulla è valso il tentativo dell’uomo di chiamare in causa un presunto lascito di 150 milioni di lire da parte del padre.


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