Mafia, gli affari di Giuliano nei parcheggi sul mare «Chiamate i vigili per chi lascia auto dove non si può»

«I fratelli. Sono i fratelli, punto». L’agente della polizia che verbalizzava avrebbe dovuto capire di chi si trattava dal grado di parentela. E  non solo per una mera questione di fama, ma perché gli Aprile era meglio non nominarli. A ricostruire la scena, ignara di essere ascoltata dagli investigatori, è una famiglia di Portopalo di Capo Passero, centro costiero della parte meridionale della provincia siracusana. È il 12 maggio 2017 e poco prima il gruppo è stato sentito in merito a quella che sembra essere una chiara intimidazione: nelle settimane precedenti qualcuno ha dato fuoco a una casa di villeggiatura con annesso terreno da oltre cinquemila metri quadrati non distante dall’Isola delle correnti. Gli autori per massimizzare gli effetti della deflagrazione hanno posizionato una bombola di gas al centro dell’immobile. 

L’episodio da subito è collegato dalle vittime a quanto accaduto la domenica delle palme, quando il capofamiglia aveva fatto sapere a Giuseppe Aprile – il più grande dei fratelli arrestati nei giorni scorsi nell’operazione antimafia Araba Fenice, che ha colpito il clan guidato da Salvatore Giuliano – che quell’anno non c’era bisogno di ripulire il terreno, perché ci avrebbero pensato gli stessi proprietari. Per evitare equivoci bisogna chiarire un aspetto: la scerbatura, stando alla ricostruzione fatta dagli inquirenti, non era un servizio richiesto dalla famiglia titolare del fondo, ma un’attività che gli Aprile da anni portavano avanti in autonomia a ridosso della stagione estiva, in quanto bisognava preparare l’area a ospitare le centinaia di auto che in estate sarebbero arrivate nella zona costiera. I fratelli, infatti, sarebbero stati soliti occupare lo spazio trasformandolo in parcheggio, senza corrispondere ai proprietari alcuna somma a titolo di affitto o di percentuale sugli introiti. Un affare che ogni anno avrebbe fruttato lauti guadagni a fronte di spese praticamente nulle.

In questo contesto si inserisce il fastidio che gli Aprile avrebbero provato nello scoprire che i proprietari si stavano muovendo in autonomia per ottenere le autorizzazioni necessarie a gestire in proprio il parcheggio. «Ricordo che il 9 aprile mio marito ha riferito della nostra intenzione di destinare il terreno vicino al mare a parcheggio autovetture», ricostruisce la proprietaria. Davanti a quell’annuncio Giuseppe Aprile non avrebbe risposto nulla. Pochi giorni dopo, a fare visita al terreno sarebbero stati tutti e tre i fratelli: anche in quel caso, però, gli Aprile si sarebbero limitati a cercare conferma del fatto che il terreno da adibire a parcheggio era proprio quello che fino a quel momento avevano occupato, sulla base di un tacito accordo che, per i magistrati della Dda di Catania, avrebbe fatto leva esclusivamente sulla forza intimidatrice derivante dall’appartenenza alla cosca legata ai Cappello di Catania. Intimidazione che si sarebbe manifestata di lì a breve sotto forma di fiamme e paura, sufficienti a fare desistere i proprietari dal proprio intento.

Quello appena raccontato è solo uno degli episodi descritti nelle oltre quattrocento pagine di ordinanza siglate dalla gip del tribunale di Catania Simona Ragazzi. A riprova di come il controllo del clan Giuliano nel territorio di Pachino e Portopalo si spingesse al di là del settore ortofrutticolo. Tra i business collaterali gestiti dal gruppo criminale ci sarebbero stati proprio i parcheggi. Specialmente quelli ricadenti nella zona balnerare. Il capomafia sarebbe stato direttamente coinvolto nell’affare e a dimostrarlo ci sarebbe un consiglio che Giuliano avrebbe dato agli Aprile il giorno di ferragosto di tre anni fa. Una dritta che sintetizza il pragmatismo che ha contraddistinto il 55enne dall’indomani della scarcerazione, avvenuta nel 2013, dopo circa vent’anni trascorsi dietro le sbarre: per evitare che le persone lasciassero le auto fuori dalle zone private, bisognava chiamare i vigili urbani affinché multassero chi parcheggiava in punti non consentiti dal codice della strada. 

I guadagni dai parcheggi sarebbero derivati pure dall’imposizione del pizzo ai gestori. C’è chi si mostrava ben disposto a concedere una parte delle entrate al clan – «se vuoi te li vengo a dare, magari la metà ti do, non ce ne sono problemi con me», dice un uomo a Claudio Aprile, il più piccolo dei fratelli – e chi, invece, avrebbe cercato di fare il furbo. «Ti volevo dire una cosa: vai a Carratois e conta le macchine, mi sembrano pochi i soldi che mi hanno portato, no?», commenta lo stesso Claudio Aprile, parlando con Giuseppe Di Salvo, coinvolto anche lui nell’operazione con l’accusa di furto e commercio di sostanze stupefacenti. 

L’attenzione del clan sui lidi avrebbe riguardato anche la guardiania. Anche in questo caso i trattamenti variavano: tra chi pagava una quota fissa di 15mila euro l’anno, indipendentemente dal fatturato, e chi riusciva a strappare dazi più leggeri. Come il gestore di un chiosco che avrebbe consegnato a uno dei fratelli 1500 euro. «Il mio chiosco è piccolo. Come faccio se non ne ho (soldi, ndr)?», prova a giustificarsi la vittima dell’estorsione. Per poi specificare che, per evitare di pretendere troppo, nei giorni di ferragosto aveva controllato da sé il proprio locale: «Quest’anno il 14 e 15 sono stato sveglio a controllarmi il chiosco». Ogni somma, comunque, era importante. A sottolinearlo è lo stesso Giuliano, che, dopo avere saputo della consegna del denaro, ordina a Claudio Aprile di metterli da parte, perché sarebbero serviti secondo i magistrati a pagare i compensi ai lavoratori dell’azienda agricola La Fenice.  «Questi poi li diamo agli operai», spiega il capomafia, impegnato nel suo personale esperimento di economia circolare.


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