Migranti, i punti deboli del sequestro a Proactiva «Giudice confonde guardia costiera con Marina»

Un giudice non può fondare la decisione di sequestrare la nave di una Ong tirando in ballo l’esigenza di controllare il flusso di migranti. A metterlo nero su bianco, una volta di più, è Alessandro Gamberini, legale di Ana Isabel Mier Montes, capa della missione nel Mediterraneo svolta dalla ong spagnola Proactiva. La cui nave da metà marzo è ferma nel porto di Pozzallo, su disposizione della procura di Catania. Il provvedimento, confermato a fine dello scorso mese dal gip etneo, è adesso al vaglio dell’omologo ragusano, dopo che la venuta meno dell’accusa di associazione a delinquere ha determinato il trasferimento dell’inchiesta, che riguarda anche il comandante Marc Reig Creus, a Ragusa. L’auspicio della difesa degli indagati è che il nuovo giudice possa prendere in considerazione una serie di fattori che smonterebbero l’intero impianto accusatorio dei magistrati siciliani. 

Al centro della vicenda c’è un’operazione di salvataggio compiuta il 16 marzo. Quel giorno il personale dell’organizzazione umanitaria ha soccorso un gommone in difficoltà con oltre cento migranti a bordo, resistendo alle pressioni dei militari libici giunti nella zona per reclamare l’esecuzione dell’intervento. Rapporti alla mano, risulta che in un primo momento l’incarico di salvare i migranti era stato dato dalla centrale operativa della guardia costiera di Roma proprio a Proactiva. Con l’ong che solo in un secondo momento sarebbe stata invitata a lasciare spazio ai libici. Su questo passaggio Gamberini fa un chiarimento. «Non coglie nel segno il decreto laddove rimprovera agli indagati di aver effettuato il salvataggio dei migranti nonostante il preciso ordine di non intervenire, impartito dalla Mrcc di Roma – si legge nella memoria -. Quell’ordine non provenne dalla guardia costiera italiana, che pure si era assunta il compito di coordinare il soccorso, bensì dalla guardia costiera libica delegata dalla Marina militare italiana». In tal senso, per i legali degli indagati a interferire nello svolgimento delle operazioni sarebbe stata proprio la Marina militare italiana, che si avrebbe rapporti con le autorità libiche, mentre in realtà il compito di coordinare le operazioni sarebbe spettato alla guardia costiera a Roma. «Qualora l’operazione di soccorso avvenga in una zona non riconosciuta come zona Sar (la Libia ufficialmente non ne ha ancora una, ndr) o dove non vi sia un centro di coordinamento funzionante – continua il legale – la responsabilità di assumere il coordinamento delle operazioni di soccorso ricade inevitabilmente sul primo Mrcc che abbia notizia di un potenziale evento occorrente in detta area». 

Nel documento si sottolinea poi come il comportamento dei libici sia stato violento, al punto da mettere in dubbio le garanzie basilari che dovrebbero supportare un’operazione di salvataggio. «Il modo con cui la guardia costiera libica si è proposta nella vicenda, minacciando con le armi per avere la consegna dei profughi, la dice lunga sulla confusione tra un’operazione di soccorso e un’operazione militare», sottolinea l’avvocato, aggiungendo che tale versione è stata confermata anche «dalle intercettazioni di un elicottero della Marina militare italiana». A essere messa in discussione è anche l’affermazione del gip di Catania secondo il quale «il concetto di porto sicuro connota un approdo senza alcuna specificazione circa il trattamento che nel luogo prescelto sia loro destinato». A riguardo la difesa della ong cita la convenzione Sar del 1979, nel passaggio in cui si dice che per porto sicuro si intende anche «il luogo in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è più minacciata e dove i loro bisogni fondamentali sono soddisfatti».

Al centro della disputa c’è anche quanto accaduto dopo che i libici si sono allontanati. Proactiva, infatti, ha fatto riferimento a Malta per fare sbarcare una donna con una neonata in gravi condizioni, scegliendo poi di continuare il percorso verso la Sicilia. Tale decisione per i magistrati siciliani seguirebbe l’esplicita volontà di portare i migranti in Italia, ma per il legale la verità sarebbe totalmente diversa. «Ai sensi delle Convenzioni Sar e Solas (2004), l’eventuale richiesta di un posto sicuro di sbarco a Malta doveva provenire dalle autorità italiane», scrive Gamberini. L’avvocato di Ana Isabel Mier Montes si spinge oltre. «Lo sbarco a Malta era, in concreto, impraticabile. Ottenere un Pos (place of safety, ndr) da Malta per 218 migranti era irrealistico: contattato molto al di fuori delle acque territoriali maltesi, il centro di coordinamento maltese faceva resistenza nel concedere l’autorizzazione all’ingresso nelle acque territoriali. In seguito veniva autorizzato l’ingresso delle sole lance di Open Arms, che avrebbero dovuto trasportare il neonato». Netta la replica anche sul presunto mancato rispetto del codice di condotta voluto dal ministero degli Interni italiano. «Il capo della centrale operativa della guardia costiera italiana, dialogando con l’addetto navale difesa Italia a Tripoli, confermava che i divieti imposti dal codice di condotta valgono solo all’interno delle acque territoriali dello Stato africano». Dunque non nella zona interessata dal salvataggio.

In attesa di sapere cosa deciderà il gip del tribunale di Ragusa, l’ong conferma il timore già reso noto nelle scorse settimane circa una politicizzazione dei fatti, con annesso rischio di prestare il fianco a strumentalizzazioni di operazioni che in realtà non avrebbero avuto nulla di illegale. «Il fumus commissi delicti non può essere confuso con il mero sospetto che viene da mesi nutrito dai media e che – conclude Gamberini – pare miscelato con valutazioni di opportunità politica che davvero non trovano in questa sede il loro luogo».


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