Enna, il futuro del corso di Medicina in rumeno Il Tribunale lo boccia, ma non blocca le attività

Un giudizio che ha fatto cantare vittoria a entrambi i contendenti. La recente decisione del Tribunale di Caltanissetta sul corso di laurea di medicina in lingua rumena a Enna rappresenta una tappa importante per il futuro della contestatissima esperienza promossa dall’ex senatore Pd Mirello Crisafulli. E sembra aver dato speranza sia al Miur, che ne chiede con forza la chiusura, sia alla Fondazione Proserpina, guidata da Crisafulli, che ne difende la legittimità.

Il Tribunale in sostanza ha respinto il reclamo del ministero dell’Istruzione che chiedeva un intervento d’urgenza della magistratura per bloccare le attività didattiche. Non ci sono le basi giuridiche, secondo i giudici, per adottare un provvedimento d’urgenza come chiesto da Roma. Tuttavia la decisione si presta a una lettura più approfondita, perché si spinge a formulare alcuni giudizi di merito su una vicenda complessa, che rappresenta un caso nazionale. 

In sostanza si parla della possibilità di un’università di un Paese aderente all’Unione europea di aprire una propria sede e attivare un corso di studi in un altro Paese dell’Ue (detto in termini tecnici «paese di stabilimento»), senza chiedere autorizzazioni e ponendosi al di fuori di quel sistema universitario. È possibile? Per il Tribunale no. Scrivono i giudici che «è vero che l’invocato articolo 49 del Tfue (il trattato sul funzionamento dell’Unione europea) vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini», ma dall’altra parte «fa obbligo di osservare le condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini». 

In sostanza persone e società di un altro Paese comunitario possono svolgere attività autonome e gestire imprese in un altro Stato dell’Ue, ma alle stesse condizioni dei cittadini e delle imprese del Paese che le ospita. Di conseguenza anche le università straniere possono avviare attività in Italia «ma non certo con l’apertura di una sede delocalizzata, svincolata da qualsivoglia forma di autorizzazione o riconoscimento». Sulla natura del corso di laurea in lingua rumena, il Tribunale sembra non avere dubbi. «Quella aperta a Enna deve considerarsi una vera e propria sede universitaria, dove vengono impartite da docenti rumeni lezioni nell’ambito di un corso di laurea al fine di conseguire un titolo accademico al dichiarato scopo di ottenerne il riconoscimento in via automatica», per effetto di una direttiva dell’Ue. 

Con uno scenario diverso da questo, «si giungerebbe ad ammettere la possibilità per le istituzioni accademiche del Paesi Ue di aprire sedi in Italia, o in altro Paese aderente, sottratte alle condizioni imposte dal paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini e imprese». Insomma si tratterebbe di «una palese discriminazione al contrario», senza possibilità di preventiva autorizzazione e successivo controllo. Così la sovranità del Paese di origine si estenderebbe ben oltre i propri confini. Un esempio, secondo il Tribunale, è il fatto che il numero di studenti ammessi al corso di laurea in medicina viene deciso dalle autorità rumene, mentre nel resto d’Italia vige un rigido numero chiuso disciplinato dal Miur. 

E neanche, secondo i giudici nisseni, la diatriba può essere paragonata agli studenti che decidono di andare in Romania, o in altro Paese, per conseguire una laurea che poi viene riconosciuta in Italia. «Quella – scrive il tribunale – rappresenta una delle forme della libertà di circolazione e di soggiorno di ogni cittadino dell’Ue, mentre l’apertura di una sede universitaria è manifestazione del diritto di stabilimento e quindi sottoposta ai limiti previsti dalla legge». Infine il Tribunale pone un dubbio su una premessa senza la quale tutti i discorsi fin qui fatti sarebbero superflui. L’università Dunarea de Jos può essere equiparata a una società? Dettaglio non di poco conto considerando il fatto che, in termini di legge, la libertà di stabilimento di cui si è parlato, è un diritto delle persone e, appunto, delle società. La risposta dei giudici è tendenzialmente negativa. «Non pare che un’università pubblica possa prefigersi uno scopo di lucro come invece richiesto dalla legge». 

Questioni su cui si tornerà a dibattere nel caso in cui, come sempre probabile, il Miur procederà a nuove azioni giudiziarie. La fine di questa battaglia sembra ancora molto lontana. 


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