In un libro mezzo secolo di amicizia con Camilleri Hoefer: «Domani ci rincontreremo dopo 50 anni»

Cinquant’anni. Mezzo secolo al telefono senza mai vedersi, ma tutta la vita da raccontarsi. Domani Andrea Camilleri riabbraccerà Federico Hoefer, poeta empedoclino trapiantato a Gela e migliore amico del maestro fin dagli anni giovanili. Un’amicizia antica, nata tra le barche di Porto Empedocle e fatta di passeggiate letterarie, impegno sociale e balli del mattone. Mare, provincia e libertà. Poi il distacco, e un rapporto che inizia a scorrere dentro una cornetta: i due si sentono ogni settimana, lontani ma con indosso ancora i calzoni corti dell’ironia spensierata e la lente critica della sensibilità colta e poetica

Un legame rimasto intatto, che i giornalisti Andrea Cassisi e Lorena Scimè rispolverano nel loro Hoefer racconta Camilleri – Gli anni a Porto Empedocle, uscito per Dario Flaccovio editore lo scorso tre giugno. Ci sarebbero duemila cose da chiedere a Hoefer, figlio di un ingegnere tedesco trasferitosi in Sicilia per ristrutturare le miniere di zolfo. «Ne chieda mille», replica l’ottantacinquenne ex capo dell’ufficio stampa di Eni. Si inizia, allora, dalla domanda più frequente: «Come è possibile che non vi vedete da 50 anni?». «L’interessante è sentirsi. Io e Andrea siamo al corrente delle “nostre cose” come se fossimo usciti dieci minuti fa per fare due passi. Ma questa volta – prosegue Hoefer – c’è una novità: domani ci rincontreremo a Roma. Forse per farci spuntare qualche lacrima, sicuramente per concederci ancora una volta la facoltà che si ha alla nostra età: parlare del passato». 

Ritornare, in un baleno, al secondo dopoguerra, quando il maestro Camilleri scriveva ancora solo poesie, pubblicate su Pesci Rossi e recensite talvolta anche da Ungaretti. «Lui mi leggeva i suoi versi, io i miei. Abbiamo sempre avuto la nostra autonoma individualità, ma nelle vene di entrambi scorre acqua marina: abbiamo il salmastro che ci lega». A proposito di vita giovanile, come erano gli approcci amorosi? «Avremo messo incinte almeno venti ragazze, con gli occhi. All’epoca c’era meno malizia e si amava meglio: bastava un ballo e ci si innamorava». E il maestro fumava già. «Assolutamente sì. Penso che se gli dico di smettere – continua Hoefer – lui muore. È un prediletto dei monopoli di Stato». 

Anche se di tempo ne è passato da quei momenti in cui «si voleva cambiare il mondo con i limiti della provincia», i due amici non hanno abbandonato le proprie abitudini. «Io scrivo ancora con la Lettera 22 e penso che nemmeno Andrea si sia dato alla tecnologia. Figurarsi che non ha nemmeno la patente». Dalla corrispondenza all’incontro. «La nostra è sempre stata un’amicizia che, nella sua semplicità, valica la normalità. Ci vogliamo bene senza orari e giorni fissi: non è un contratto telefonico, né una messa. Domani, con la solita genuinità, pranzeremo e ceneremo assieme, con qualche piatto siciliano preparato da mia moglie». È un fiume in piena, Hoefer: parla di Buttitta come interprete della lingua siciliana, di Rosa Balistreri come ambasciatrice della Sicilia nel mondo e di come si fa a rimanere tra gli uomini, una volta che non si è più sulla Terra. «Quello che resta di noi è quello che è stato scritto: nel bene e nel male, è la nostra eredità». 

In questo caso, a cristallizzare il patrimonio di vita vissuta che lega Camilleri e Hoefer ci hanno pensato Cassisi e Scimè. «Abbiamo scelto di offrire al lettore una testimonianza pura – spiega la giornalista di Repubblica – attraverso una collana di ricordi che si incastonano come piccole perle nella libertà del racconto di Hoefer. Io e Andrea ci siamo sentiti come i nipoti sulle ginocchia di un nonno che, passando dalle lacrime al sorriso esilarante, attraversa la propria memoria tra aneddoti e storie. E poi, vedere l’espressione di grandissima gioia ed emozione del maestro Camilleri quando gli abbiamo consegnato il libro in anteprima e a sorpresa, è stato un immenso piacere, oltre che un onore». Il volume sarà presentato oggi a Catania, il 30 giugno a Gela e l’1 luglio ad Agrigento: «occhiu vivu e manu o cuteddru», come si ripetevano sempre Hoefer e Camilleri.


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