L'imprenditore piemontese - già protagonista in Sicilia dell'operazione che portò, sotto Cuffaro, al censimento da 80 milioni del patrimonio immobiliare della Regione - è finito agli arresti domiciliari. Grazie alle dichiarazioni dei due avvocati che lo avrebbero salvato dai guai fiscali
Amara e Calafiore incastrano l’imprenditore Bigotti Piano per portare l’indagine a Siracusa e archiviarla
Il Sistema Siracusa si arricchisce di dettagli. Un altro tassello è stato ricostruito grazie alle dichiarazioni rese ai magistrati di Messina dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, i due principali artefici del sistema in grado di condizionare la giustizia a Siracusa e ai vertici dei massimi organi di giustizia amministrativa. Stavolta a finire agli arresti domiciliari sono l’imprenditore piemontese Ezio Bigotti e l’ex tecnico petrolifero Massimo Gaboardi, quest’ultimo tra i protagonisti di una complessa operazione che mirava a ostacolare le indagini della Procura di Milano nei confronti dei vertici dell’Eni.
Bigotti è nome non nuovo alle cronache siciliane. C’è lui infatti tra i soci privati che nel 2006 si aggiudicano un’importante commessa con la Regione Siciliana. In quel momento al governo della Regione c’è Totò Cuffaro e viene affidato il compito di valorizzare il patrimonio immobiliare regionale a una società mista, la Sicilia patrimonio immobiliare, che tra i soci privati più influenti vede in prima fila proprio Bigotti, all’epoca con la società Sti Servizi Srl (oggi diventata Exitone Spa e al centro dell’operazione che ha portato all’arresto dell’imprenditore). Tornando alle vicende del passato, è Bigotti, come primo step del progetto di valorizzazione degli immobili, a portare avanti un censimento del patrimonio che alla Regione sarebbe dovuto costare, secondo contratto, 80 milioni di euro. Pagamenti che nel 2010 Gaetano Armao, in passato consulente di Bigotti e all’epoca assessore all’Economia di Lombardo e oggi nello stesso ruolo con Musumeci, interrompe. Ne nasce un contenzioso tuttora non risolto che, stando a una ricostruzione di Repubblica Palermo, sarebbe lievitato dagli iniziali 12 milioni stabiliti da un primo arbitrato a 80 milioni di euro.
Ieri l’imprenditore Bigotti è finito agli arresti domiciliari. Accusato di corruzione in atti giudiziari per uscire indenne dagli accertamenti condotti a carico di imprese a lui riconducibili dalle Procure di Torino, Roma e Siracusa, nonché in sede tributaria. A incastrarlo sono stati i suoi ex legali, Amara e Calafiore, gli stessi che, stando alle ricostruzione degli inquirenti, lo avevano salvato dai guai fiscali prima organizzando un ingegnoso piano per dare alla Procura di Siracusa la titolarità delle indagini a suo carico e poi comprando l’archiviazione dell’indagine, chiesta a ottenuta dal pm Giancarlo Longo, tassello centrale del Sistema Siracusa, già rinviato a giudizio con l’accusa di essere al soldo dei due avvocati.
Il piano nasce da lontano. Mentre su Bigotti indaga la Procura di Torino, entra in scena Francesco Corrado Perricone, un consulente contabile (già rinviato a giudizio insieme a Longo per corruzione). Mentre è chiamato dallo stesso Longo a occuparsi della vicenda della discarica Cisma di Melilli, Perricone invia un’email «con la quale informava il pubblico ministero Longo dell’esistenza di fatture senza contratto che riguardavano la Exitone (società di Bigotti ndr), circostanza – scrivono gli inquirenti nell’ordinanza di custodia cautelare di ieri – che consentiva al Longo di iscrivere Bigotti nel registro degli indagati, cosi da precostituirsi un precedente ed attrarre gli altri procedimenti penali, come di fatto è avvenuto».
Il pm Longo, a quel punto, si sarebbe avvalso delle consulenze tecniche del commercialista siracusano Vincenzo Ripoli (nominato dal magistrato su suggerimento di Amara e Calafiore e pure lui indagato) per scagionare l’imprenditore Bigotti. Secondo gli inquirenti, la perizia di Ripoli è «frutto di un falso ideologico». Oltre alla perizia, Longo interroga sia Bigotti che il dirigente della Exitone Cesare Piselli. Due verbali che contribuiscono a scagionare l’imprenditore piemontese, redatti in maniera anomala, senza la presenza di un assistente giudiziario. Sono le dichiarazioni di Calafiore a dare una spiegazione alle stranezze: «Le dichiarazioni, già precompilate – ricostruisce l’avvocato ai pm di Messina – sono state sottoscritte all’esterno del Tribunale, sul cofano di una macchina parcheggiata in via Scala Greca, vicino al bar, in quanto avevano premura di ripartire». «I verbali – come ha precisato Calafiore nel successivo interrogatorio del 25 maggio 2018 – sono stati formati da Amara, che li ha consegnati a Calafiore mentre si trovava a Roma e da Roma il Calafiore li ha portati a Siracusa». Di quei due verbali infatti nel computer di Longo non verrà trovata alcuna traccia.