«Il ministro Alfano che fa? È nato a 40 chilometri da qui, ma non fa nulla». La voce di Ignazio Cutrò – il testimone di giustizia che da anni si trova a fronteggiare le richieste da parte di banche e fisco, in seguito alla chiusura della propria azienda – è esasperata, dopo aver saputo che entro la fine del mese dovrà restituire oltre mezzo milione di euro. Una cifra impensabile per lui che oggi, in base a quanto previsto dalla legge per coloro che decidono di denunciare Cosa nostra, lavora al centro per l’impiego di Bivona. La città che ha deciso di non lasciare. «Continuano a far vincere la mafia – dichiara Cutrò a MeridioNews -. Il 28 marzo mi ipotecheranno tutto, è stato deciso che né io né i miei figli possiamo avere serenità. Che senso ha fare tutte quelle passerelle antimafia, se poi si abbandona chi denuncia?».
Le parole di Cutrò – che a inizio anni Duemila si ribellò contro le minacce della criminalità organizza, contribuendo all’arresto dei fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto – in questi anni sono ritornate più volte al centro dell’attenzione dei media. Senza tuttavia avere alcun effetto sulla propria vicenda personale. «I problemi nascono il 3 marzo 2011 – ricorda l’ex imprenditore – quando l’allora sottosegretario Alfredo Mantovano inviò un perito affinché valutasse la mia situazione. Il tecnico fece tutte le indagini del caso e inviò una relazione alla commissione centrale per la protezione dei testimoni di giustizia del Viminale». La storia, però, si interrompe lì. Per i successivi cinque anni della relazione non si sa più nulla, mentre a casa di Cutrò iniziano a bussare sia la Serit, l’ente allora deputato alla riscossione dei tributi, che le banche.
Cartelle esattoriali e mutui non onorati, e da pagare. Nonostante, sulla carta, i testimoni di giustizia dovrebbero godere di sospensive e agevolazioni, per affrontare le difficoltà che derivano dalla decisione di opporsi frontalmente alla mafia. Difficoltà che a Cutrò qualcuno rappresentò a suo tempo: «Un giorno, durante un incontro, mi hanno detto che non lavorerò mai perché nel mio territorio la mafia è troppo potente. Mi hanno detto di andare via», dichiarò l’anno scorso, senza specificare l’autore del consiglio.
Un anno dopo, le cose non sembrano essere cambiate. Anche se in realtà, finalmente, la relazione del perito è stata esaminata dalla commissione centrale del ministero. «È stata ritrovata due mesi fa – racconta Cutrò -. In quel documento il perito aveva scritto che tutti i danni constatati erano riconducibili alla mafia, aggiungendo di intervenire nei miei confronti con un mutuo garantito dallo Stato da 300mila euro. Il tecnico scrisse che avevo diritto alle sospensive di cui non avevo goduto». A oggi, però, nessuna azione concreta è stata intrapresa da parte dello Stato. A differenza dei creditori di Cutrò, che sono ritornati a battere cassa.
«Anche un sordo avrebbe capito l’urgenza della mia situazione e invece al ministro degli Interni sembra non interessare nulla. Eppure lui conosce questa terra. Così facendo portano le persone a fare follie», conclude il testimone di giustizia. A fine ottobre, a parlare era stata anche la figlia del testimone, dopo aver letto un articolo di MeridioNews: «Abbiamo iniziato la nostra battaglia qui, lo abbiamo fatto per dignità, perché è giusto stare dalla parte dello Stato».
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