Acireale, il mese in città di dieci bambini sahrawi «Hanno scoperto il mare e mangiato la granita»

«Tu come ti chiami?». Chi ha fatto una passeggiata ad Acireale, in questi giorni, ha probabilmente incrociato per le vie del centro trenini di bambini e bambine che, puntando il dito, chiedono il nome dei passanti, come fosse un gioco. In molti li hanno guardati sorridendo, e, dopo un saluto, hanno provato a imparare i loro nomi: Minetu, Baricala, Hafed, Jadiyetu. Poi loro hanno continuato a scorrazzare per il corso principale, guardando ogni cosa come fosse la prima volta. E, in fondo, è così.

Sono dieci cittadini della Repubblica araba democratica del Sahrawi (RASD), hanno tutti dieci anni, e vogliono far conoscere la storia del popolo a ovest del Sahara. Acireale, con il supporto dell’associazione Terra futura, li ha ospitati fino alla fine dell’estate. Si sa poco del loro paese d’origine, all’Onu il Sahara Occidentale detiene un posto da osservatore, si trova scorrendo la lista dei territori non autonomi delle Nazioni unite. Il popolo sahrawi è formato da gruppi tribali arabo-berberi, stanziati lungo una fascia di territorio del Nordafrica, al confine con il Marocco e la Mauritania. Una parte della popolazione vive nei territori del Sahara occupati illegalmente dal Marocco (due terzi di terra, corrispondenti alla fascia costiera), un’altra nei territori della RASD liberati dalla resistenza nel 1976, mentre il resto vive in campi profughi in Algeria.

Cosa hanno fatto qui? Sara Scudero, responsabile del progetto d’accoglienza Mi casa es tu casa, racconta che i sahrawi vengono periodicamente nel nostro Paese con due obiettivi: far conoscere alla comunità internazionale la loro battaglia pacifica per l’indipendenza e consentire ai bambini di allontanarsi, almeno nei mesi estivi, dalle temperature del deserto, per sottoporsi a visite mediche e vaccinazioni che non hanno mai fatto. «La cosa che li ha sconvolti di più è stata vedere per la prima volta il mare – racconta Sara –. Atterrati a Roma, sono saliti su un treno che li ha portati in Sicilia e non hanno mai smesso di guardare dal finestrino quella che a loro sembrava un’enorme distesa d’acqua».

E poi il confronto con gli altri ragazzi, la prima volta al cinema, il basket, lo spettacolo dei burattini, la visita all’istituto penale minorile, le partite di calcio in piazza Duomo, la pizza e le lezioni di musica. I bambini conoscono a memoria l’inno sahrawi, ma non sanno che quel territorio è una ex colonia spagnola. Che, ottenuta la ratifica da parte dell’Onu dell’atto di autodeterminazione (1966), reclama da quarant’anni il referendum per la sua indipendenza. Né sono in grado di raccontare che le tribù sahrawi aspettano lì, pacificamente, dietro un muro eretto dal Marocco dopo l’offensiva militare, che divide in due, da nord a sud, il Sahara Occidentale. I bambini, però, su ogni spazio bianco disegnano la bandiera che sventola nel loro villaggio, nera, bianca e verde, con una mezzaluna e una stella rosse.

I campi profughi sahrawi sorgono in pieno deserto, dove la Repubblica araba sperimenta un inizio di applicazione concreta della sue istituzioni e dei suoi principi democratici. In attesa che, a settembre 2016, all’Onu arrivi una petizione – portata avanti da una delegazione delle Nazioni unite – per supportare il referendum sull’indipendenza. La storia di un popolo che si mischia con quella dei bambini in giro ad Acireale. A chi avesse provato a offrire loro una ciambella a merenda, Sara Scudero risponde: «Grazie, ma abbiamo riempito la casa di dolci». E chi avesse voluto invitarli a cena doveva fare i conti con un’agenda fitta di impegni: «Ci sono stati inviti a pranzo e a cena per un mese intero».

Sara spiega che tutta la città si è mobilitata per accoglierli: «Ogni mattina i bambini sono stati visitati, gratuitamente, da dentisti, oculisti, otorini e cardiologi». Hanno tutti un cuore sano, la bocca piena di carie e una ragazza ha indossato il suo primo paio di occhiali da vista. «I bar hanno offerto granite a colazione, la sera i locali hanno fatto assaggiare le loro pizze. C’è chi ha messo a disposizione la casa per ospitarli, chi ha regalato vestiti e chi ha fatto la spesa», racconta Tislim, l’accompagnatrice dei bambini. E sicuramente tutti gli acesi che hanno avuto a che fare con loro hanno imparato una parola in dialetto hassanya, molto simile all’arabo: shukran, grazie.

Flavia Musumeci

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