«A Palermo il lavoro c’è…se accetti di essere schiavo» In casa famiglia dalle 7 alle 20 per circa 2 euro l’ora

«A Palermo il lavoro c’è, ma solo se sei disposto ad essere schiavizzato». È difficile dare torto a questo utente che si sfoga su Facebook, se la succulenta offerta di lavoro consiste in 13 ore da trascorrere in una casa famiglia, dalle 7 alle 20, per un compenso mensile di 450 euro. Ma attenzione: si lavora solo a giorni alterni, mica tutta la settimana. Il che significa, ipotizzando, che se la richiesta di questo datore di lavoro fosse quella di lavorare un giorno sì e l’altro no, avremmo quattro giorni lavorativi su sette. Quindi, 52 ore a settimana per circa 208 in un mese. Quelle tredici ore si trasformano, insomma, in poco più di 2 euro l’ora di compenso. È l’ennesima proposta per chi cerca un impiego nel capoluogo siciliano. E questa volta sbandierata pubblicamente nel noto gruppo Facebook Cerco e offro lavoro a Palermo, generando – com’era successo anche in altre occasioni per proposte simili – sgomento e indignazione. 

«A Palermo il lavoro c’è! Come questo. Che è meglio non sapere quant’è la paga oraria… Naturalmente senza contratto e qualora ci fosse vengono dichiarate meno ore rispetto le effettive lavorate», immagina un utente, scoraggiato in partenza dal messaggio poco invitante del datore di lavoro in cerca di possibili dipendenti e «solo se realmente interessati». «Ma già questa è una cosa risaputa, le case di riposo mi offrono 500 euro al mese per circa 12 ore, giorno o notte, e ovviamente in nero – commenta qualcun altro che ha già vissuto un’esperienza simile sulla propria pelle -, ma puntualmente nessuno le controlla a tappeto perché c’è sempre l’amico che avvisa prima dei controlli. Ma non sono solo le case di riposo, i ristoranti con lavapiatti, fattorini e camerieri che fanno 13/14 ore di lavoro per 40 euro e ovviamente in nero… Ma, appunto, non esistono controlli, non esiste niente in questa terra maledetta». Online c’è anche chi prova a sdrammatizzare, scherzando sul fatto che quasi quasi sarebbe «meglio andare a Mondello a vendere le cover», vista la situazione attuale. «Oliver Twist aveva più ore libere», scherza qualcun altro, scomodando persino il famoso personaggio inventato dalla penna di Dickens.

Meglio saperci ridere su che lamentarsi, almeno a Palermo. Dove di fronte a delle (legittime) pretese la risposta di default sembra essere quasi sempre la stessa: «Ah ma allora non hai voglia di lavorare! E dillo subito». Meglio tacere e girare i tacchi quindi, e guardare al prossimo annuncio sperando in qualcosa di più serio. Oppure accettare, come fa qualcun altro che, pur di arrivare a fine mese, si accolla proposte come questa, più vicine allo schiavismo moderno che a una reale offerta lavorativa. «Ma chi controlla?» si chiedono in molti. «Il tema, analizzato dalla nostra prospettiva ispettiva, va visto sotto un’altra ottica – spiega il tenente colonnello Pierluigi Bonomo del gruppo carabinieri tutela del lavoro -. Nel senso che le piattaforme multimediali e i social network sono diventati non tanto il luogo di consumazione dell’illecito, ma lo strumento per fare incontrare una domanda e un’offerta di lavoro illecita». Cosa vuol dire? L’incontro  fra domanda e offerta di lavoro può avvenire in diversi modi, dai centri per l’impiego, ad esempio, alle agenzie interinali, che sono regolarmente autorizzate dal ministero del Lavoro. Oppure attraverso la dialettica tra privati. Che astrattamente non è vietata.

Lo è, però, lo sfruttamento dei lavoratori, «ma lì è un’altra fattispecie oggi fortemente tutelata dalla norma sul caporalato, oltre che dalla parte amministrativa che riguarda la difformità dei contratti collettivi di categoria. Dall’altro – prosegue il tenente colonnello Bonomo – c’è un discorso di appalto illecito di lavoratori, ed è questo il vero tema su cui lavoriamo: ossia strutture, anzi sovrastrutture che si sostituiscono agli interlocutori istituzionali per procacciare lavoro a chi lo domanda agli imprenditori». Uno dei casi più estremi risale alla settimana scorsa ed è avvenuto ad Agrigento, dove un gruppo di slovacche aveva messo su un piccolo centro per l’impiego procacciando manodopera che arrivava dall’estero per gli imprenditori agricoli locali. Perché avvengono queste cose? «Mentre le agenzie interinali del lavoro sono abbastanza in linea con la normativa vigente, nella dialettica tra privati è chiaro che tutto può succedere – spiega -. Noi riscontriamo tutti i possibili illeciti penali o amministrativi che si possono realizzare. Ma ripeto, Facebook e tutto il resto a seguire sono solo lo strumento per favorire condotte di sfruttamento, non è che lo sfruttamento avviene perché uno c’ha Facebook. L’avvento dei mezzi di comunicazione globale ha consentito modi più avanzati di far incontrare questa domanda e questa offerta». Ma, come i social ben ci insegnano, libertà e accessibilità delle diverse piattaforme hanno a volte un amaro risvolto della medaglia.

«Circa un anno fa abbiamo documentato un appalto illecito di lavoratori locali attraverso Facebook che venivano impiegati sul litorale palermitano in luoghi di balneazione, ma formalmente erano assunti da una società fittizia in Bulgaria che poi li appaltava illecitamente ad altre società qui in Sicilia – racconta -. Facebook era lo strumento per procacciare bagnini, addetti alle vendite nei bar dei lidi e factotum vari, era il modo per allettare soprattutto giovani sprovveduti che si accontentano di lavorare anche oltre quelli che sono i contratti di categoria per prendere 3-400 euro d’estate, che magari fanno comodo per uscire la sera». Ma sono poche le segnalazioni da parte di utenti e cittadini e, quando avvengono, qualcuno ormai c’ha già rimesso. «Normalmente veniamo a sapere qualcosa nella fase successiva dai lavoratori stessi che hanno prima accettato e lavorato a queste condizioni di minore retribuzione e poi vengono da noi a denunciare», spiega il tenente colonnello Bonomo. Fare un controllo analitico sui social, però, è piuttosto complesso considerando l’enorme massa di persone che vi accede.

«Prima in un paesino la giovane di turno veniva assunta come commessa, magari in nero, col passaparola. Oggi avviene ancora ma è anche più semplice connettersi a una piattaforma, vedere un annuncio del genere e proporsi per lo stesso tipo di lavoro sottopagato. In pratica è cambiato solo lo strumento». E, appunto, le segnalazioni quando ci sono arrivano solo quando l’eventuale illecito si è già consumato. «Diciamo che la reticenza e l’omertà siciliana sono sempre abnormi – osserva Bonomo -, a volte ci sono esposti anonimi che ci arrivano su tutti i possibili fenomeni di illecito e di sfruttamento, ma non è che la gente si lamenti che queste cose avvengano su Facebook. C’è il lavoratore impiegato male che poi quando si scoccia viene da noi a denunciare. E poi ci sono i nostri controlli spontanei, che sono numerosissimi, attraverso cui riscontriamo queste cose, in alcuni casi anche la fonte del problema». Ma quali sono i rischi per chi sponsorizza certe offerte di lavoro?

«Dobbiamo distinguere tra la fase propedeutica al rapporto di lavoro, nella quale si viene a confrontare la proposta del datore di lavoro con la volontà di aderire del soggetto e lì, se non si arriva alla truffa che è penale, siamo nel campo dell’illecito civile, cioè di una normale negoziazione fra privati laddove io sono d’accordo oppure meno. Quando però si instaura il rapporto di lavoro – continua -, da lì è chiaro che poi ne deriva la qualunque, nel senso che non esiste solo il caporalato. Se un lavoratore stipula un contratto in nero ci sono delle sanzioni precise, stessa cosa se vieni contrattualizzato come full time ma pagato come un part time, se il lavoratore denuncia l’imprenditore subisce tutta una serie di conseguenze, dovendo rispondere sia in termini di somme dovute al lavoratore che di somme omesse all’Inps, oltre alle sanzioni che ci sono e che non sono poco salate, anzi».


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