Commissione antimafia sul giornalismo in Sicilia Dai «felpati avvertimenti» alle amicizie pericolose

«Per le mafie controllare i propri territori, garantirsi impunità, costruire consenso e legittimità sociale vuol dire anche sottomettere la libera informazione, pretendere rispetto, costringerla al silenzio». Si apre così la relazione del comitato Mafia, giornalisti e mondo dell’informazione, creato all’interno della commissione antimafia alla Camera e coordinato dal vicepresidente Claudio Fava. Da luglio dello scorso anno, i deputati hanno ascoltato le esperienze di 34 giornalisti da tutta Italia. E alla Sicilia è dedicata gran parte del documento riassuntivo. Il lavoro del comitato si è mosso all’interno di dati drammatici: 2060 casi – tra minacce e attentati ai danni di cronisti – dal 2006 al 2014. Solo considerando gli episodi denunciati, cioè una piccola parte. Tra cui diversi casi noti, come gli attentati subiti e le querele ricevute – 314 in tutto – dal giornalista Pino Maniaci di Partinico: «Abbiamo avuto qualcosa come 40 gomme tagliate, tre macchine bruciate, io ho subìto un’aggressione fisica da parte del figlio del boss Vito Vitale, che ha cercato di strozzarmi con la mia stessa cravatta – racconta alla commissione – Mi sono salvato, ma porto un busto perché sono stato fracassato dai pugni».


PALERMO
Non solo minacce esplicite. Enrico Bellavia, giornalista de La Repubblica – autore di Un uomo d’onore, libro-intervista a Francesco Di Carlo, boss di Altofonte, nel Palermitano – ha raccontato dei «più felpati avvertimenti, magari sottovalutati». «Mi sono trovato con uomini che mi spiegavano che non avevo capito niente e che bisognava leggere le cose in un altro modo. Il clima minaccioso era quello dell’avvocato di boss importanti che ti diceva: “Hai scritto un sacco di sciocchezze”, oppure “Guarda che il mio cliente è particolarmente incazzato con te” e quasi te lo dice come consiglio». Come quando una lettera anonima gli consiglia appunto di non scavare nei tentativi di contatto tra le istituzioni e Cosa nostra «per fermare Giovanni Falcone», perché «queste “cose del passato possono far male”». «Io ho avuto la grande fortuna di lavorare in una grande città, Palermo, il che consente comunque un certo anonimato nel privato. Cosa diversa è per chi lavora in un piccolo centro», spiega il giornalista. Ma il capoluogo regionale, nelle parole di un altro cronista, Lirio Abbate de L’Espresso, è anche il centro delle strategie mafiose che coinvolgono la stampa. «In un salotto bene di Palermo, quello del medico mafioso di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, nel 2001 le intercettazioni ambientali hanno registrato che i capimafia si riunivano proprio in quel posto e discutevano del fatto che per i mafiosi fosse importante coinvolgere i giornalisti nel loro progetto. È importante per la mafia influenzare anche l’opinione pubblica, perché la mafia è fatta anche di consenso».


CATANIA
Tra gli assenti alle centinaia di audizioni condotte dal comitato spicca quella dell’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il quale aveva preannunciato ai deputati «che si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere». Ed è proprio sulla linea del quotidiano di cui Ciancio è editore e direttore – La Sicilia –  e sulle epurazioni giornalistiche alla sua emittente Telecolor che si concentra gran parte della relazione. Dove si evidenziano i presunti legami tra l’imprenditore e Cosa nostra, oggi al centro di un’indagine che potrebbe diventare un processo.


AGRIGENTO
Francesco Castaldo dovrebbe lavorare come capo servizio al quotidiano La Sicilia. Almeno così stabilisce una sentenza e altrettanto dice la sua busta paga. Ma non lavora. «Il suo direttore-editore Mario Ciancio gli impedisce di entrare nella redazione di Agrigento, dove ha lavorato fino al 1996 come capo della redazione occupandosi principalmente di vicende di mafia», si legge nella relazione del comitato. Tutto comincia nel 1995 quando Castaldo racconta di un’udienza del maxiprocesso di Agrigento svolta a Roma e del coinvolgimento di un imprenditore, Filippo Salamone. «Immediatamente dopo – racconta il cronista – in seguito a un incontro tra il mio editore-direttore Ciancio e Salamone, venni trasferito a Catania». Dove «mi hanno messo in uno sgabuzzino. Non avevo una scrivania né un telefono». Ma è comunque impossibile per Castaldo lasciarsi le vicende di Agrigento alle spalle. «Nel corso dei procedimenti scoprimmo poi che Ciancio si era incontrato con Salamone, che avevano utilizzato un po’ di gente per gettare fango sul mio nome, sulla mia persona – continua il giornalista – Per la cronaca, Filippo Salamone è stato arrestato per mafia, condannato definitivamente a sei anni e mezzo, e io sono qui». 


TRAPANI
Rino Giacalone
si occupa da anni di criminalità organizzata in una provincia dall’alta densità mafiosa ma spesso ignorata dai media regionali. «Io non mi sono mai sentito intimidito più di tanto – racconta al comitato – Le intimidazioni sono state le querele subite. Una di queste l’ho appena perduta con l’ex sindaco Girolamo Fazio di Trapani, una querela nata da un articolo in cui si diceva che quel sindaco, per negare la cittadinanza onoraria a un ex prefetto, Fulvio Sodano, di recente scomparso, aveva detto che l’antimafia faceva più danno della mafia. Mettevo in evidenza che nei pizzini che erano stati allora appena ritrovati della corrispondenza particolare di Matteo Messina Denaro, il boss mafioso sosteneva la stessa cosa… Sono stato condannato a pagare 25mila euro». Fazio intanto ha ottenuto una seconda sindacatura con una percentuale bulgara di consensi e poi un seggio come deputato regionale di Forza Italia. Giacalone invece è stato querelato ancora, dalla vedova di un noto boss di Mazara del Vallo Mariano Agate. «Un pubblico ministero a Trapani dapprima ha tentato di farmi incontrare la vedova per stringerle la mano e vedere di rimettere la querela ma io non mi sono presentato, e adesso sono citato in giudizio», racconta il giornalista.


IL CASO DE IL GIORNALE DI SICILIA
 
«Come facevo io a dire “sì” all’omicidio di Mario Francese, se ero amico del suo editore?». Così il boss Michele Greco – poi condannato per la morte del giornalista del principale quotidiano siciliano – spiegava i suoi rapporti con la testata e l’editore-direttore, con cui giocava al tiro al piattello. Erano gli anni ’70 e «c’era un posto a Palermo, il Circolo della stampa, dietro al Teatro Massimo – ricorda il giornalista de La Repubblica Roberto Bellavia – Era aperto alla crème della società siciliana ed era frequentato per lo più dai mafiosi. La sera si trasformava in una gigantesca bisca. Era una camera di compensazione di vari interessi e vi si trovavano uomini che avevano rapporti con Bontate e Teresi e che lavoravano al Giornale di Sicilia». Una contiguità che, nelle parole dei giornalisti che ci hanno lavorato, ha segnato per un bel pezzo la storia del principale quotidiano siciliano. Tra notizie mai pubblicate, titoli garantisti, mafiosi in visita in redazione e cronisti licenziati. Si arriva così, ricorda Francesco La Licata, alla creazione di due pagine consecutive: una sulla mafia e una sull’antimafia. «Come se le due cose fossero sullo stesso piano – commenta il cronista – Fu realizzata una perfetta par condicio che non avrebbe mai dovuto esserci».


L’INFORMAZIONE IN SICILIA
«L’intero territorio siciliano, per decenni, è stato in mano a un duopolio che si è diviso il territorio. Da un lato Ciancio per Catania e la Sicilia orientale con il quotidiano La Sicilia, dall’altro gli Ardizzone con il Giornale di Sicilia. Il terzo incomodo era la Rai, che però già allora si presentava imbrigliata dalla funzione di servizio pubblico e fortemente condizionata dalle forze politiche locali». Due quotidiani, inoltre, dove si assiste alla «identificazione della figura del direttore politico con quella dell’editore, con una sovrapposizione di funzioni, responsabilità e interessi». Così La Licata spiega alla commissione la «sofferenza» del giornalismo siciliano. «Credo che almeno il peccato d’omissione, soprattutto al Sud, sia scomparso – aggiunge Nino Milazzo, catanese, ex direttore de La Sicilia e vicedirettore del Corriere della sera – Nessuno osa nascondere quello che è visibile a tutti. Sull’obiettività, non mi spingo fino al concetto di falsificazione dei fatti, ma permane una certa reticenza e un certo atteggiamento negativo». Che, almeno in passato, si faceva più forte via via che si saliva verso il Nord. Negli anni ’90, nel periodo delle stragi, «perfino al Corriere la Sicilia veniva concepita come un fastidio», racconta Milazzo. Sentimento riassunto nel commento di un editorialista del quotidiano milanese: «La Sicilia ha rotto i coglioni».


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