EL MUNIRIA –

“STANZA 218”

EL MUNIRIA

2004

homesleep records

 

 

 

Una sigaretta che si accende, un colpo di tosse, qualche sospiro. “amico tutto ciò che separa è santo”. La voce di Emidio Clementi filtrata da un microfono amplificato apre il debutto del progetto El Muniria con “Santo”. Il brano è oscuro, “ho un pezzo del mio cuore incartato sotto la mia sedia”, si sente un fatalismo di piombo, una durezza formale ed è efficace l’intersezione tra il parlato di Clementi ed il canto soffice di Luca Gemma.

Siamo a Tangeri, qui Mimì (ex Massimo Volume) e Massimo Carozzi (già nel collettivo bolognese Zimmer Frei) Dario Parisini, Giacomo Fiorenza, Luca Gemma, Steve Piccolo (ex Lounge Lizard), Paolo Cucco (Mau Mau), Vittoria Burattini (ex Massimo Volume, adesso Franklin Delano) e Francesco Donadello (Giardini di Mirò) portano con sé i ferri del mestiere e trasformano la stanza 218 dello Shalimar Hotel in una sala di registrazione. Da fuori penetra tutto il calore della cultura sotto il sole che s’infiltra diretto nelle tracce con un effetto irradiante.

Stanza 218 non è il racconto di un viaggio in Tunisia ma piuttosto lo script del film delle vite di un gruppo che sceglie le strade bollenti e le case basse con le pareti che scricchiolano per il loro debutto concettuale.

Perché forse per perpetrare meglio un’emozione questa deve essere sofferta, ammaccata dalla distanza e dalla diversità. O forse perché certe emozioni possono nascere solo in certi luoghi.

“Shalimar Hotel” è un efficace tuffo indietro nelle scene di vita dentro l’Hotel tangerino e “Stanza 218” teatro dei difficili rapporti della band durante le registrazioni:

“io sento solo l’aria che entra da una finestra rotta, sento solo le mattonelle fredde sotto i piedi”.

Sono sicuramente lontani i tempi dei Massimo Volume per Mimì Clementi, El Muniria è un progetto diverso. E’ diverso innanzi tutto l’approccio musicale trasversalmente condito di digitale, campionature, pulsazioni di synth e poca chitarra perlopiù nascosta nelle retrovie.

Gli arrangiamenti così, strizzano l’occhio all’ultima fase dei Massive Attack o a Tricky di Maxinquaye. Il tutto per dipingere un’atmosfera fortemente intimista ed introspettiva dove i ricordi, i profumi, gli aliti d’Africa affiorano sottoforma di languide reminiscenze o confuse sensazioni.

Tra gli episodi più toccanti trova spazio “Fino in fondo”. Ora è l’esotico che pressa in maniera autolesionista nei brandelli di testo di Clementi.

“che ci stiamo a fare qui” balbetta il cantante, si respira come un senso d’oppressione verso la Medina, verso il calore dei bar all’aperto, verso i formicai dei mercati, verso terre così differenti rispetto all’Emilia solitaria. Le notti di Tangeri sono lunghe ed asfissianti, non bastano le bibite ghiacciate e non bastano cieli infiniti per ammortizzare i pensieri oscuri.

“Forse tra un attimo” è l’esempio perfetto di commistione magica tra poesia e quell’elettronica che con la sua morbidezza riesce ad evocare.

I versi sono dominati dall’anafora (non..), ripetuta più e più volte dall’autore, preludio alla frase finale-centrale:

“forse tra un attimo

qui

accanto a te”

 

ma la chiusura dell’album è davvero tra le migliori espressioni che la musica italiana abbia saputo fare negli ultimi anni.

“Insieme” è certamente la poesia d’amore più delicata e sentita uscita dalla penna di Emidio Clementi. Anche qui l’elettronica sa essere sensibile e per nulla invadente e si risente un’inconfondibile rullata di batteria della ex-Massimo Volume Vittoria Burattini.

In coda un registratore propone quattro cinque minuti di cicale, fruscii d’automobili, silenzio serale del Boulevard Pasteur ed il canto di qualcuno dal palazzo di fronte, strappati direttamente dalle strade di Tangeri.

 

 

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