Gli interessi, le passioni e gli orrori

Cari amici di Step1, mi avete chiesto di scrivere “alcune sue considerazioni riguardo al conflitto iracheno”, raccomandandomi di fare un’analisi STORICA. Scusatemi se vi rispondo il forma di lettera e se parlerò molto poco di altra storia che non sia la temibile storia del nostro presente.

Penso che  questa guerra vada guardata da tre punti di vista. Il primo, che accennerò appena, visto che questo aspetto del discorso mi pare il più scontato di tutti, è quello degli interessi, che fanno del Medio Oriente un’area d’importanza fondamentale per il controllo di una risorsa strategica come il petrolio. Negli ultimi trenta anni ci sono voluti un bel mucchio di morti per far sì che un fiume di petrolio, e di gas, potesse scorrere verso gli assetati motori d’Occidente. Il secondo – che a mio parere è il più importante – è quello delle passioni. Abbiamo di fronte una guerra  che sta risvegliando, da entrambe le parti, ideologie devastanti. Si tratta di una cultura della morte che non ha nulla a che fare con il passato dell’Islam, ma che costituisce un’invenzione recente. Il culto della morte, le idee sulla “bella morte”, tornano a germogliando anche da noi in Occidente e stanno minacciando le nostre tradizioni di tolleranza e di apertura nei confronti delle culture diverse dalla nostra. Si tratta in definitiva di un aggiornamento, in salsa postmoderna, del motto famigerato: “Dio è con noi”. Infine, il terzo punto di vista riguarda il mutato rapporto tra la guerra e i mass media. Come si fa a descrivere l’orrore evitando l’errore? Dire la guerra, parlare di questa guerra, è diventato la stessa cosa di farla?

Sulla questione degli interessi mi terrò sul generico. Per più di un ventennio, tra il 1950 e il 1970, le “majors” del petrolio – l’inglese BP, il gruppo anglo olandese della Royal Dutch-Shell, e le statunitensi Standard Oil of New Jersey (ora Exxon), la Standard Oil of California, più nota come Chevron, la Mobil, la Gulf e la Texas Oil Company (Texaco) – furono padrone assolute del mercato dell’oro nero,  controllando in quel periodo quasi l’ottanta per cento delle riserve, della produzione e della capacità di raffinazione esistente nel mondo (al di fuori degli Stati Uniti, del Canada e dei paesi allora sotto l’ombrello sovietico). Le “Sette Sorelle”, come le definì Enrico Mattei, controllavano la quasi totalità del petrolio del Golfo Persico e di tutto il Medio Oriente, grazie alle concessioni ottenute nei lontani anni Venti e Trenta. A spezzare il gioco furono la nascita dell’Opec (che sostituì però un cartello con un altro cartello), le nazionalizzazioni ed il ritiro delle concessioni. Ma la vera crisi per le compagnie petrolifere si apre nei primi anni Ottanta, per culminare nel contro-shock petrolifero del 1986. Da allora molte sfide si sono aperte, quella del gas soprattutto, e si è avviata una colossale riorganizzazione attraverso una fase di successive concentrazioni dei maggiori società petrolifere mondiali. Le tre “guerre del Golfo”, e soprattutto la seconda, quella del 1991 per riprendere il controllo del Kuwait invaso da Saddam Hussein, non possono essere spiegate senza tener conto del petrolio.

Però l’interesse economico aiuta a comprendere soltanto una piccola parte di quello che sta succedendo. Si deve considerare un altro fatto nuovo: la nascita di due forme di fanatismo politico, opposte ma perfettamente complementari. La prima è il fondamentalismo islamico. La seconda è la concezione dei neoconservatori americani, i cosiddetti “neocons” che hanno dominato la politica estera dell’amministrazione Bush.

Alla base della diffusione del fondamentalismo islamico c’è l’affermazione di Khomeini in Iran. Nel gennaio 1979 lo “scià” Reza Pahlavi, promotore di una politica filo-americana e di una traumatica modernizzazione dell’Iran, fu cacciato da un movimento popolare ispirato da un nazionalismo religioso islamico (di rito sciita). L’imam Khomeini, richiamato dall’esilio francese, assunse la guida della “Repubblica islamica”, sulla base di una costituzione che subordinava i poteri laici a quelli religiosi degli ayatollah e alla legge coranica. Il vecchio Khomeini suscitò un travolgente consenso di massa, rappresentato da folle enormi di giovani che si cingevano la fronte col nastro verde del martirio e di donne rigorosamente coperte dal velo islamico, il chador. E’ bene notare che fino a quel momento la maggior parte delle donne iraniane non erano affatto costrette a portarlo. Il nemico era l’intero mondo occidentale e in particolare il presidente degli USA, a quel tempo Jimmy Carter, indicato come il “Grande Satana”.

Faccio soltanto un cenno alla lunga e crudele prima guerra del Golfo (1980-1988), tra l’Iran di  Khomeini e l’Iraq guidato dal laico Saddam Hussein che ricevette allora un sostanzioso sostegno militare da parte degli USA. Nonostante il fanatismo religioso delle decine di migliaia di adolescenti iraniani che andavano all’assalto quasi inermi, sicuri di un premio divino, la guerra scatenata dall’Iraq si concluse nel 1988 con un nulla di fatto e col ritorno alle posizioni di partenza. Ma nel frattempo il fondamentalismo islamico si era propagato nelle regioni vicine, a cominciare dall’Afghanistan dove contribuì a rafforzare la guerriglia contro il governo filosovietico (e in questo caso gli USA aiutavano gli integralisti islamici in contrapposizione all’URSS). Esso aveva messo radici persino nei Paesi arabi moderati, giungeva a scatenare una vera e propria guerra civile in un Paese tradizionalmente fornito di una leadership laica come l’Algeria. Bin Laden e la sua nuova organizzazione terroristica internazionale costituiscono la più recente propaggine del fondamentalismo.

L’altra novità, come dicevo, è rappresentata dalla dottrina dell’attuale amministrazione americana a proposito della necessità di una guerra preventiva e di lunga durata contro il terrorismo e gli “stati canaglia” che lo sostengono.  L’idea è stata propagandata dopo l’11 settembre 2001 per giustificare la necessità di dare in Afghanistan una immediata “risposta” al terribile attentato delle torri gemelle.  L’Afghanistan doveva essere una conquista rapida per passare subito a quella dell’Iraq, cioè alla terza guerra del Golfo contro il regime di Saddam Hussein accusato di detenere micidiali armi di distruzione di massa. Alla base di questa nuova strategia militare statunitense c’è il pensiero ultraconservatore del gruppo di consiglieri che hanno influenzato la politica estera di Bush. Un fatto che può sembrare strano è  che buona parte del gruppo di intellettuali che si autodefiniscono “neocons” proviene dalla sinistra newyorkese. Semplificando molto il discorso mi limiterò a ricordare uno dei nomi più noti, quello di Samuel Huntington, fondatore della nuova retorica dello “scontro tra le civiltà”. Servendosi di nozioni totalizzanti come quella di civiltà, questo politologo propone, una configurazione dei rapporti di forza internazionali basata su rigide linee di frattura cultural-religiose.

Nella visione di Huntington, le “civiltà” sono viste come universi compatti, autonomi, irriducibili, potenzialmente o effettivamente ostili l’uno all’altro. I rapporti del cosiddetto Occidente con altre aree, paesi e culture sono rappresentati nei termini dell’opposizione tra l’Occidente e il resto del mondo. Secondo la profezia di Huntington, la scena internazionale nel futuro prossimo sarà dominata dai conflitti fra otto “civiltà”: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo-ortodossa, latino-americana, nonché la “potenziale” civiltà africana. E la minaccia mortale alla “civiltà occidentale”, il cui baluardo è costituito dagli Stati uniti, sarebbe rappresentata dal rischio della coalizione fra le due “civiltà” più pericolose, la confuciana e l’islamica. Dunque, in tale configurazione, la “civiltà islamica” occupa un posto assolutamente centrale, essendo fra l’altro rappresentata come un blocco monolitico caratterizzato da “frontiere sanguinose” per un’atavica e intrinseca propensione a esaltare le virtù guerresche. In definitiva, alla “civiltà occidentale”, rappresentata anch’essa come un’entità unitaria, cementata dalle comuni radici cristiane e la cui compattezza dipenderebbe in sostanza dalla subordinazione dell’Europa ai disegni statunitensi, spetterebbe il compito di addomesticare e ridurre a propria ragione il resto del mondo. Huntington sposta l’attenzione dalle relazioni fra gli stati alla dimensione culturale e religiosa delle contraddizioni e dei conflitti. Questa interpretazione ignora il carattere storico, processuale, fluido delle identità e delle culture e in tal modo tradisce la sua affinità con l’ideologia che ha ispirato la dottrina della guerra preventiva.

E’ un po’ deludente riassumere tutto questo discorso in poche battute. Non posso far altro che rinviarvi al corso di Storia contemporanea dell’anno prossimo, venite a lezione e ne sentirete parlare. Passiamo dunque alla questione del rapporto tra guerra e media.

L’Iraq sembra essere divenuto il Paese dove si mettono in scena gli orrori dell’umanità. E dire che gli americani sostenevano che occorresse cacciare via Saddam perché era un tiranno sanguinario! Ebbene, mai come in questo “dopoguerra” l’Iraq è stato così somigliante a un teatro dell’orrore. Gli avvenimenti sembrano susseguirsi come gli atti di uno spettacolo ben congegnato, nel quale ogni nuova scena costituisce un crescendo. Vi ricordate del primo atto? Era quel ragazzino che aveva perduto l’intera famiglia in un bombardamento e che veniva filmato mutilato di entrambe le braccia, le truppe britanniche avevano dovuto trasportarlo urgentemente in Inghilterra per salvargli la vita e in seguito abbiamo visto un filmato sugli sforzi che faceva per adattarsi alla doppia protesi. Il secondo atto fu la bomba degli islamisti che distrusse la sede ONU. Anche in quel caso il corteo degli orrori era ben rappresentato: i morti stesi al suolo e l’ONU, unica forza di pace nel territorio iracheno, costretta a ritirarsi tutta insanguinata. Lo stesso arresto di Saddam fu una scena orribile. Si esponeva agli occhi del mondo quel dittatore decaduto, umiliato, sudicio, mal rasato, tirato fuori dal suo buco come un sorcio. In quelle immagini il rispetto dei prigionieri di guerra era già cosa dimenticata e le telecamere non trascurarono di filmare persino la sequenza indecente in cui si tastavano i denti di Saddam per controllare se era proprio lui.

Gli orrori si sono succeduti con un ritmo incalzante, senza lasciare ai telespettatori il tempo di alzarsi tra una scena e l’altra per andare in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua. Ci furono quei cadaveri degli americani trascinati dagli iracheni in una scena degna della guerra di Troia. In tutte queste sequenze i carnefici si lasciano compiacentemente filmare o fotografare, il che implica l’assenza di un minimo senso di colpa. Hitler, Mussolini e Stalin avevano il pudore o la prudenza di dissimulare le atrocità che venivano commesse in loro nome. Anche oggi Putin tenta di evitare che i media filmino la guerra che conduce in Cecenia. Invece, nella successione di orrori del teatro iracheno, le scene dei soldati americani che umiliano i prigionieri iracheni e quella del civile decapitato, si compiono sempre davanti a macchine fotografiche e a telecamere digitali e accrescono il parossismo di intensità di uno spettacolo sul quale vorremmo vedere calare il sipario.

Ma nulla lascia prevedere che si sia giunti alla conclusione. Al contrario, è probabile che il teatro dell’orrore ci sorprenda ancora  e che i carnefici, travestiti da attori, operatori e registi, ci riservino molte altre scene degne di un film di Quentin Tarantino. Vedendole è facile dimenticare che tutto ciò è la vita quotidiana di milioni di persone e che la realtà dell’orrore in Iraq oltrepassa le migliori fictions.


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