Un’avventura umana: Cous Cous

È bello descrivere un film con le sue stesse parole. E allora cosa dire di Cous Cous (La graine et le mulet è il titolo francese) se non che è un film che narra una splendida “avventura umana”. La storia di un vecchio immigrato, ormai incapace di lavorare al cantiere, della sua famiglia, dei suoi rapporti umani. La storia di una famiglia un po’ stropicciata, storia di amori forti, esasperati, spesso addirittura proibiti e celati; storia di pregiudizi, di un tentativo di riscatto economico e sociale, di un sogno da realizzare per continuare a sperare. C’è tanto nell’affresco di Abdellatif Kechiche. Un piatto abbondante, semplice ma ben preparato, studiato e limato nei minimi particolari. Qualcuno ha parlato di neorealismo, per via delle riprese quasi distratte e documentaristiche, delle scene casuali ed intime, della scelta di numerosi attori non professionisti.

Ed in effetti Kechiche ci catapulta ben dentro l’inquadratura, ben oltre lo schermo, tra i volti dei protagonisti, dentro la cucina lacera; quasi si avverte l’odore del pesce, il sapore delle pietanze, il rumore delle mandibole e ci si sente partecipi, vicini, a momenti intrusi. Quella che si pone davanti agli occhi non è una epopea galattica, ma una storia vera, possibile. Un’epica degli umili; la quotidiana lotta per un briciolo di pane ed un tozzo di affetto. Non ci sono Giasoni o titani, non ci sono colossi spartani né pirati, ci sono solo uomini nudi e crudi.

Ed allora vengono alla mente le parole di una canzone di Caparezza che sfiliamo in sordina dall’appena trascorso primo maggio «…sono un Eroe perché lotto tutte le ore, sono un Eroe perché combatto per la pensione, sono un Eroe perché proteggo i miei cari…» e ci ricordiamo che i veri eroi non sono solo personaggi mitici e fantascientifici, ma spesso sono uomini piccoli piccoli e sconosciuti che costantemente combattono la loro triste battaglia, che quotidianamente vivono la loro tragi-commedia. E ogni tanto l’arte ha bisogno di piegarsi sulle loro teste, di fronte ai loro volti, di raggomitolarsi tra le loro gambe, e di raccontarceli con sobrietà, senza fronzoli eccessivi, ricordandoci che la sensualità, il rispetto, l’amore, il valore individuale non sono concetti astratti e lontani, ma vivono nelle piccole cose.

E si tira un respiro di sollievo. La dirompente danza finale poi è l’ultima impennata, l’ultimo colpo di coda, l’ultimo grido. Il suggello dell’opera del regista. Un momento di sensualità fragile ed esplosiva che squarcia il velo che separa realtà e finzione, che ammalia tanto lo spettatore seduto in poltrona, quanto quelli presenti nello schermo e chiude ed apre il film allo stesso tempo. Un film in cui arte e vita si toccano quasi sbadatamente, lasciando in quel punto un solco profondo che probabilmente non può che giustificare i consensi di critica riscossi dalla pellicola.


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