La parola ‘dislessia’

Alcune università stanno cominciando a mostrare un’attenzione specifica per le esigenze degli studenti dislessici: è il caso ad esempio del nostro ateneo, in cui, durante i test d’ingresso, chi soffre di tale disturbo dovrebbe poter disporre di un tempo prolungato e di un tutor per la rilettura dei testi.

Le università di Modena e Reggio Emilia garantiscono l’opportunità di utilizzare strumenti compensativi e dispensativi, nonché la possibilità di richiedere tempi più lunghi e di sostenere oralmente anche gli esami previsti come scritti (per info: www.unimore.it/servizi/dislessici.asp). Per saperne di più andate al sito dell’Aid (Associazione italiana dislessia: www.dislessia.it).

Ma la parola dislessia non è soltanto un termine che sta a indicare un “disturbo” dell’apprendimento più diffuso di quanto si creda (il 4 – 5 per cento della popolazione scolastica, secondo alcune stime). Ragionare su di essa può essere un modo per interrogarci sul che fare affinché la scuola e l’università non trasformino in “idioti” persone sensibili e dotate. Eccovi l’articolo di Imogen Stubbs da “The Daily Telegraph” (traduzione italiana su “La Repubblica delle Donne”, n.475 del 12/11/2005).

Mio figlio, nove anni, si è mostrato entusiasta quando gli ho chiesto di collaborare a questo articolo. Ma non voleva scrivere. Dopo un’ora e mezzo di agonia e la promessa di un nuovo guanto da baseball, ecco cosa è riuscito a produrre: “Quando io srivo e scrivo i parigrafi il mio cervelo è confuso e fa male e io trovo parola gusta ma cuando scende per il mio bracio sparicse prima che ecse dalla mia mano e avolte piango”. Stiamo parlando di un ragazzino che disegna con un sorprendente senso del colore. È sempre allegro, spiritoso, tenero e sensibile all’umore e ai sentimenti degli altri. Adora i bambini piccoli e gli animali. Può passare ore a parlare con un pescatore, o ad aiutare il giardiniere, o a intagliare un pezzo di legno. Si sposta ovunque sullo skateboard. Ama far volare gli aquiloni e costruire cose, andare in kayak e cucinare. Ma fa fatica a ricordare il nome di mio fratello. E solo due anni fa, quando gli è stato chiesto quanto faceva due più due, ha risposto: “Aprile?”.

È come se i suoi pensieri si perdessero nel passaggio dalle immagini alle parole. Leggere e scrivere richiede, ai bambini dislessici, una concentrazione estenuante, e procurano loro un senso di tensione, paura e totale isolamento quando percepiscono che tutti sono più bravi di loro, li guardano con disprezzo o con pietà. Quando finalmente arrivano all’obiettivo, non hanno il desiderio di porsene un altro. Nel frattempo, gli altri sono andati avanti senza di loro. E questo accade ancora e ancora.

La dislessia non è una malattia, e non ha niente a che fare con la mancanza d’intelligenza. È un disturbo neurologico, spesso ereditario, che ostacola l’acquisizione e l’elaborazione del linguaggio. Un bambino su dieci ne soffre, in qualche forma. Non c’è uno standard, ma caratteristiche comuni sì: sorprendenti capacità artistiche e meccaniche, enorme potenziale nel pensiero intuitivo, creativo e multidimensionale.

Sul versante negativo, può essere difficile l’elaborazione logica, matematica e linguistica. Spesso ci sono problemi di concentrazione e memoria a breve termine, una certa lentezza nel pensiero. Quest’ultimo segue spesso uno schema non lineare che Eddie Izzard  attore, noto per la sua comicità surreale, dislessico  ha trasformato in una virtù.

In Inghilterra, il problema più grande sembra il sistema scolastico: le classi sono affollate, l’insegnamento finalizzato solo al rendimento in sede di esami, il che è una catastrofe per quasi tutti i dislessici. La scuola non valorizza, né è in grado di farlo, i loro punti di forza. Per imparare in maniera diversa, occorre un insegnamento diverso. Ma i docenti, in generale, non hanno il tempo, né le risorse, né le conoscenze. La lezione che questi bambini imparano a scuola è: se per l’ennesima volta ti ritrovi a terra, la tentazione di rimanerci è enorme, perché lì non sei esposto al terrore e all’umiliazione di cascare ancora.

Per Julia Goodman, attivista della campagna “per le diversità di apprendimento” e dislessica, tutti i bambini meritano un’educazione che li porti a essere apprezzati, piuttosto che curati: “Occorre trovare la propria identità, e accettarla allegramente. Più ancora, occorre che ci sia un’identità riconosciuta e accettata dagli altri, e che non la si debba sacrificare al comprensibile bisogno di “adeguarsi””.

Nella maggior parte degli istituti si parte dall’idea che tutti i bambini sono uguali, ma alcuni più di altri. Cosa facciamo noi genitori? Come aiutare nostro figlio a superare bene la scuola, e allo stesso tempo a conservare la sua unicità? Come essere certi che verrà individuato il percorso giusto prima che lui si senta lasciato da parte, si spaventi o si rassegni a essere l’idiota della situazione? Oppure dovremmo semplicemente affermare che “il nostro bambino è fantastico, solare e brillante”, e lasciare tutto com’è? Non lo sappiamo. Un dato è evidente: la vita di nostro figlio non dovrebbe essere giudicata con esami. Ma esistono scuole senza?

Nel profondo del mio cuore vorrei tenere mio figlio a casa, proteggerlo e dargli un’istruzione privata. Ovvero: incoraggiarlo a lavorare ai suoi dipinti impressionisti e alla ceramica, portarlo al cinema e a teatro, cantare assieme, inventare storie, suonare strumenti musicali, costruire una barca a vela e attraversare il Rajasthan a dorso di cammello. Voglio proporgli mille sfide che lo ispirino e lo entusiasmino, invece di abbandonarlo a un’esperienza scolastica dove ogni libro e ogni lezione
implicano un diverso approccio d’insegnamento. Naturalmente, la mia idillica idea è probabilmente anche ingenua. Come la mettiamo con gli sport e la vita sociale? E quale pressione pone sulla famiglia l’istruzione privata? Mio figlio frequenta una scuola fantastica, che fa di tutto per dargli un sostegno supplementare. Ma anche così, torna a casa dicendo che la sua testa “non funziona bene”, che i bambini lo canzonano, che non sarà mai in grado di scrivere bene “febbraio”.

Un’insegnante che lo segue con passione ci ha detto che la mancanza di competitività, l’essere felice nel lasciar vincere gli altri, è il suo lato stupendo e allo stesso tempo il suo problema. Mio figlio è orgogliosissimo quando riceve encomi. Ma, in una grande scuola, non si viene spesso lodati per essere stati gentili con i più piccoli al parco giochi. Dal bambino buffo che fa il matto, è facile diventare il matto tout court. Mantenere la sua concentrazione è come governare un aquilone in una giornata troppo ventosa: contro natura. Ma si deve evitare, allo stesso tempo, di cadere dall’altra parte, nella pigrizia: la dislessia può diventare una scusa per sottrarsi a tutto o per non voler neppure tentare. Molti bambini si ammalano pur di evitare la scuola e le potenziali umiliazioni.

La mia grande paura è che, a mano a mano che mio figlio cresce, smetta di renderci partecipi dei suoi disagi, li spinga più profondamente dentro di sé o li nasconda. La pubertà è un momento difficile: i ragazzi tendono a evitare le domande con una scrollata di spalle o con un “non so”, un “va bene comunque”, uno “sto bene”. Diventerà molto difficile rendersi conto quando “sto bene” vuol dire invece: “Per favore, aiutatemi, sono perso e spaventato e non ho idea di che cosa stiano
parlando tutti gli altri”.

E temo che, con il disintegrarsi dell’autostima, lui perda il sorriso solare che trabocca felicità per la mia approvazione. Forse la gioia diventerà un obbligo a essere divertente, un’amarezza e un cinismo difensivi. “Seeh, certo, io sono il vostro fantastico ragazzo eccezionale. E ditemi, dove? Fatemi un esempio di qualcosa in cui riesco bene… Vedete?”. Se non gli daremo l’istruzione giusta, negli anni le ferite cancelleranno i lati brillanti della sua personalità. Mi rendo conto che comincio a proiettare su mio figlio le mie paure. Mi riesce molto difficile lasciarlo seguire la sua strada o avere fiducia nel suo intuito. Allo stesso tempo, sono terrorizzata all’idea che diventi iperdipendente. In Voglia di tenerezza, Shirley McLaine è così protettiva verso il neonato da infilarsi nella culla. Io mi sento come lei, a giorni alterni.

La parola “dislessia” non esaurisce il tema. Non accenna alla natura onnicomprensiva di questa condizione, alle sue mille sfumature, alla complessità dei suoi dolori e gioie. Qual è la lente più giusta per vederla? Taluni si riferiscono ai bambini con difficoltà di apprendimento come a “bambini dotati”. Tutto è meglio di “ragazzi del tavolo dei ritardati”, come erano chiamati quando il disturbo non era riconosciuto. Oggi la terminologia getta una qualche luce su ciò che esso comporta: schema cognitivo non lineare, insicurezza fonologica, difficoltà di apprendimento, disturbo dell’attenzione e disturbo dell’attenzione con iperattività. E difficoltà di apprendimento specifica, da non confondere con il disturbo pragmatico semantico del linguaggio.

Noi siamo fortunati. A nostro figlio la dislessia è stata diagnosticata in età abbastanza tenera, non appena è diventato chiaro che aveva problemi a memorizzare. Oggi, nella sua piccola scuola privata, riceve due o tre ore la settimana di sostegno in matematica, scrittura e lettura, assieme ad altri che hanno “difficoltà di apprendimento” inevitabilmente diverse dalle sue. Gli insegnanti di sostegno   hanno molto più lavoro di quello che, con la migliore volontà, sono in grado di svolgere.

Per il resto, noi genitori abbiamo colto ogni opportunità. Gli abbiamo fatto ingoiare olio di pesce; vedere raggi di luce in stanze buie; chiesto di camminare all’indietro su una linea contando ranocchie di plastica; di tenersi in equilibrio su tavole mentre afferrava al volo, a volte con la bocca, cuscinetti lanciati. Tutte situazioni che ora si fondono in un ricordo strano. Può darsi che alcune aiutino, come può darsi che aiuti cambiare i cereali che mangia a colazione. È difficilissimo stabilire se
qualcosa rappresenta un reale miglioramento, o è parte dello sviluppo naturale, o è un palliativo alla nostra disperata voglia di crederci.

Unica certezza: tutte le nuove “soluzioni” richiedono molto tempo e denaro. La dislessia è un business in espansione: ci sono sempre più persone disperate, alla ricerca di una “cura” miracolosa. Ma per questo disturbo non occorre una cura; solo una diagnosi precoce. Poi subentra una necessità di apprendimento che durerà tutta la vita, così come il sostegno e la motivazione. Questo in un mondo ideale. In quello reale, per le famiglie è dura affermare il diritto a un’assistenza ad hoc. E
non è detto che abitino vicino a una scuola in grado di fornirla. Ci sono pochi posti, pochi istituti e molti sono pensionati. Stare lontano dai genitori potrebbe essere devastante per bambini che si sentono già isolati. L’alternativa alle scuole specializzate (dall’inevitabile sapore di segregazione) o al sostegno privato è l'”inclusione”: ovvero, l’aiuto extrascolastico all’interno del sistema di insegnamento regolare. È un ideale bellissimo, ma funzionerà? I dislessici potranno essere fisicamente presenti e sentirsi parte della classe. Ma se saranno “inclusi” nell’esperienza della riuscita, è un altro discorso. L’inclusione può diventare facilmente esclusione, se non prevede una differenziazione: il lavoro potrà essere assieme alla classe so lo per le attività non strettamente scolastiche. Inoltre, è necessario che i compagni siano generosi, tolleranti, ben disposti.

E poi: le acquisizioni dei contenuti delle materie non sono le uniche ad avere valore. Abilità manuali e apprendistato mi sembrano stupende alternative. Alex Tait è un’insegnante specializzata dal grande carisma. Patience Thompson, un’autorità nel disturbo da difficoltà di apprendimento specifica, dirige la casa editrice Barrington Stoke, che pubblica libri scritti specificamente per bambini dislessici. Sono gli unici che mio figlio abbia mai divorato. Entrambe sono dell’avviso che i piccoli con difficoltà di apprendimento specifica abbiano bisogno di un approccio multisensoriale, basato sull’uso della parola e lineare; di imparare in modo dinamico e sorprendente; di essere molto bene informati sul calendario scolastico, per evitare loro la paura costante di umiliazioni inaspettate. Ancora: le scuole dovrebbero individuare il potenziale che molti tengono nascosto, perché hanno paura all’idea di perseguire qualcosa e di fallire. In altre parole creare, per lo sviluppo emotivo, intellettuale e sociale dei bambini, un ambiente protetto, dove non ci sia il rischio di derisione. E l’insegnamento non andrebbe focalizzato sui rendimenti agli esami, ma sull’istillare l’autostima.

La possibilità di scelta dovrebbe essere una realtà. I genitori non dovrebbero essere obbligati a rivolgersi ad avvocati e tribunali, con tutto quello che ciò comporta in termini di tensione emotiva e oneri finanziari, per mandare i bambini nelle scuole giuste. Questo tipo di insegnamento, inoltre, dovrebbe obbligatoriamente far parte della formazione professionale degli insegnanti. Che ci siano coordinatori per “esigenze particolari” nella maggior parte delle scuole inglesi è già un enorme passo avanti. Costoro, però, spesso si devono occupare di problemi molto diversi. Le cose sono migliorate, ma non abbastanza.

Il mio ideale è una combinazione di metodi ortodossi e no. Ai bambini servono ovviamente gli strumenti della lettura, della scrittura e della matematica, per essere in grado di affrontare la società. Ma anche poter spaziare fuori dalla pista tracciata, per scoprire e sviluppare capacità non strettamente scolastiche che potrebbero diventare, un giorno, le basi della loro carriera. Così concluderebbero l’esperienza scolastica senza ferite, ma in possesso di quelle capacità che definiscono positivamente la loro differenza e unicità. Molte celebrità devono il successo al loro essere diversi; non sono celebri nonostante la diversità. Tom Cruise, Robin Williams, Walt Disney, Agatha Christie, John Lennon e William Butler Yeats sono alcuni dislessici famosi.

Talvolta ho la sensazione che ci sia qualcosa di prezioso e invidiabile nel modo in cui mio figlio percepisce il mondo. Io vedo un albero e, dentro di me, un noioso ragionamento tiene a debita distanza le percezioni sensoriali. In questo processo, molte cose vanno perse. Lui risponde in maniera molto più istintiva ed emotiva: percepisce il verdemarrone che si stacca sull’azzurro del cielo, il profumo degli aghi di pino, la ruvidezza della corteccia. Come ricorda Tom Stoppard: “I nomi delle cose non vengono prima, le parole vengono dopo le cose, tentando disperatamente di diventare la sensazione”. C’è una grande
bellezza e un immenso valore nel rispondere alla pura essenza di qualcosa. In qualunque direzione si vada, bisogna lavorare per conservare questa capacità in ogni bambino. “Avolte ame viene in mente la cosa migliore e piu buona, e chiamo la maestra io ioio! ma quando lei mi vede e dice si è sparita come un conilio in un buco e non si vede nemmeno il nasino, solo un mistero scuro”.

©The Daily Telegraph


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