Via dal degrado. Così ho rimpatriato una famiglia romena

Scavalcando la burocrazia, ignorando i protocolli, dimenticando le polemiche sono riuscita a rimpatriare sei romeni. Non per contrapposizione alla politica e alle autorità, ma ho scoperto che aiuti e decisioni molti cittadini li stanno assumendo in proprio, da soli. Ho saputo di gente che offre ospitalità, piccoli sostegni, aiuti materiali, lavoro. Altri hanno sviluppato un preoccupante rifiuto. Ma il problema è un’umanità in cui dilagano bisogni e assenza di regole.

La “mia” famiglia romena, sei nomadi senza casa, senza mezzi, senza lavoro, torna a casa. Il viaggio verso Bucarest inizia domenica, poco prima della mezzanotte, quando una telefonata interrompe il silenzio. “Ciao, abbiamo paura, verranno a bruciare le baracche, dobbiamo andare via“. Ormai la spirale di violenza non distingue più se stranieri o italiani. Il buio con le sue ombre e minacce precipita nell’angoscia. Qualcosa si è rotto. Non solo l’indifferenza. C’è uno squarcio nella fiducia e la tolleranza è un equilibrio fragilissimo. Allora è una corsa contro il tempo. Anche rimpatriare è difficile. File, permessi, moduli, liste d’attesa. E’ una giungla di pratiche che obbliga a rinunciarvi. Lo spettro dei centri di raccolta spaventa. Faccio i miei conti e pago io il rimpatrio. Con i miei soldi e il mio precario equilibrio economico. Non è giusto ovviamente, e non la strada che sollecito. Sollecito le istituzioni a superare le divisioni e ad agire sul campo, fuori da ogni teoria. Via da lì, via dai campi e dalle baracche.

La famiglia di Ioan e Ludmilla, i tre ragazzi e Maria che a diciassette anni è già incinta, è pronta per mettersi in cammino. Sei zaini gonfi sulle spalle, sei spalle che conoscono senza differenza d’età solo fatiche. Dentro le sacche c’è tutto il mondo che si portano via: qualche vestito, scarpe, coperte logore e insudiciate, una pentola senza manico, un po’ di cibo. E un sogno: cambiare la vita. Non sono venuti qui per rubare, per farci del male. Il viaggio di ritorno durerà quarantotto ore. Ad attenderli una sola stanza per sei, nessun lavoro. Avevano lasciato il poco per vetri da lavare, elemosine e cassette da scaricare nelle notti ghiacciate dei mercati rionali. “Domani saremo già in Romania“. D’improvviso il nome si carica di attesa e diventa patria materna. Via dalle baracche, via dal fiume, via dal freddo e dalla follia di una vita oltre il degrado. Da quando il romeno ha aggredito la donna italiana l’Italia non è più quella immaginata. Le contraddizioni e le assurdità sono esplose, spezzando ogni incantesimo e ogni pretesa. A Roma ci sono nomadi sotto i ponti, nei giardini, sotto gli oleandri, tra i cartoni. Scene di un inferno moderno e quotidiano.

Ioan e Ludmilla, 44 anni lui e 38 lei, volti rugosi e neri di smog, erano arrivati due anni fa convinti di trovare sotto i cieli di Roma una prospettiva. Ora sono lì, in fila, davanti all’autobus a due piani con le tv, che dopo aver lasciato l’Italia scenderà lungo la linea dell’est, verso Bucarest. Sono in fila coi capi chini, lo fanno per me, come gli ho insegnato, per comunicare il dolore quando il dolore preme dentro. L’ultimo è Cristian, 17 anni, occhi neri, un’intelligenza pronta e vivace, è lui il vero capofamiglia, lui protegge, lui provvede, lui sorride, lui sa cosa fare quando c’è pericolo, c’è buio, c’è il balordo e c’è fame. Lui mi ha insegnato tante più cose di quante non gliene abbia sapute dire io, che pure l’ho messo davanti a un computer e gli ho detto: “Vuoi vedere che ti faccio fare il giornalista“. E Cristian si è messo a girare su tutti i siti d’informazione romeni, saltando dalla pagine dello sport a quello delle sue musiche preferite.

Ma come è cominciato tutto questo? Devo partire da qui. Dai sentieri dello spirito, dalla voce che chiama e guida. Ogni esistenza è come il fiume che va verso il mare, ma talvolta si incammina verso silenzi e solitudini. E’ Dio che fa spazio. E quando tutto tace, sorge un’alba di luce che illumina e il cuore si carica di un amore pesante, ampio, che sale a mezzogiorno verso il picco delle carità. E dentro la carità si muove un’umanità oltre ogni appartenenza. Gli stranieri nelle nostre città sono anche questo. Non solo degrado e sopraffazione, negheremmo un volto della storia, una realtà insopprimibile, finiremmo per difenderci senza capire le dimensioni dei fenomeni. Torneremmo alle condizioni di un olocausto.

Tutto torna ora alla mente. Era una domenica vuota di gente, la piazza sgombra di auto, la strada silenziosa. Una donna rovista in un cassonetto, cerca qualcosa. Gli sguardi si incrociano, si toccano i cuori. Anche il mio è gonfio di silenzio e apprensione. Ma la mia desolazione è digitale, elettronica, la donna invece piange come una madonna antica. Mi ritrovo dentro i suoi occhi: “Non puoi fare questo, mangiare in un cassonetto“, dico. Inizia un dialogo di sguardi, lei non capisce la nostra lingua. Seguo il suo sentiero di messaggi, attraverso la mia dimensione per scoprire che lì, a pochi passi da dove abito, nascosta e mimetizzata tra le foglie, sul greto del fiume, come una volta, si è insediata una intera comunità, all’altezza di Tor di Quinto. Scendo un vialetto, tra canne disordinate, sporcizia dimenticata, qualcosa si muove. Poi due occhi, quattro, sei… Sono persone, persone che vivono lì, a pochi metri dal fiume torbido. Alzo una tenda e vedo qualcosa: il dispiegamento del non avere. E pure, tutto è disposto in maniera non casuale. Alcune cassette fanno da sostegno a due materassi dove sopra ci sono coperte vecchie. Le canne sono piegate come un ombrello. Poi oggetti di ogni tipo. Sono così disabituata che non distinguo, poi vedo che nel disordine c’è un’allegria multiforme.

Resto muta e impietrita, mentre si diffonde un acre odore di aglio. Ludmilla incoraggia: “Vè , vé…”. Faccio un passo e dico: “Vivete così?“. “Vè, vè…“. Ci sono tre ragazzi: hanno meno di 12 anni. Poi arriva Cristian, col passo deciso, parla perfettamente italiano. Gli spiego, lui risponde. “Cosa posso fare per voi?“. Inizio a portare vestiti, cibo, poche ma utili cose. Seppure non c’è un metodo e un progetto, seppure ciò avviene fuori da qualunque corridoio umanitario, è uno scambio. E scopro, percorrendo la strada e poi il viottolo con passo sempre più lesto, saltellando su una gioia sconosciuta, al ritmo di un’attesa segreta, che sono stata accolta in una comunità senza confini, figlia del cielo e delle stelle, dentro quella dimensione di cittadino universale che forse non può che partire dal basso. E penso che con gli allargamenti delle frontiere ciascuno deve rinunciare a qualcosa per un nuovo scambio di dare e avere. Siamo chiamati a dialogare con le povertà.

Un giorno avviene il miracolo. Scorgo che gli oggetti che ho portato pensandone un utilizzo domestico e normale, sono stati appesi tutt’intorno come i ciondoli di un albero di natale e danzano lievi e sono le pareti e il tetto di questo cielo di vita. Capisco d’un tratto che c’è qualcosa di magico e rituale, di sacro. Solo così si può tenere ferma l’insidia tra stracci, povertà e fame. Allora, solo allora, inizia il mio viaggio dentro i loro sguardi e, passata di occhi in occhio, vedo il nero del male. E un modo di combattere. Dal buio alla luce, dentro un antico sapere di preghiere. Sul filo sotteso si compone una danza. E d’incanto le vesti diventano strati di tulle, rasi e veli. Le trecce delle donne si sciolgono come i fili di un’arpa e le sottane sventolano come bandiere. I bambini ballano, i più grandi battono le mani. La musica è dentro e in alto. Cerchi di persone si allargano e s’intrecciano. Gli uomini sono in fondo, guardano. Quelli dagli sguardi più scuri, si avvicinano, uno è più cupo di altri. Volto lentamente le spalle, fino a che i nostri profili sono in una traiettoria di scelte. Mi lasciano i loro bambini, vado a fare loro scuola, qualche piccolo insegnamento.

In questo mondo oltre ogni patria, in cui le diversità si incontrano e a volte è tutto così rapido che tempeste etniche agitano le nostre latitudini, penso che cortei di nomadi debbano convergere da ogni punto d’Europa dove l’Europa è unione. Per chiedere regole e integrazione. Lo stanno già facendo in Francia, una colonna di uomini e donne e bambini è in cammino. Il dibattito sui cittadini dell’universo trasformato, di questo mondo elettronico, sintetico, deve occuparsi anche di loro. I comandamenti che discendono dentro le leggi e le sovranità nazionali non possono lasciare fuori comunità pur antiche. Sarà una processione, un presepe, rivendicazioni umili come preghiere. Dov’è la terra e la patria per milioni di poveri, diseredati e negletti in cammino sui sentieri dell’amore?


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