Il disastro di Genova e i timori per i viadotti siciliani «Tutti con cemento precompresso, che dura 50 anni»

«L’età critica dei viadotti è mediamente 50 anni, passata quella fase è necessario intervenire in maniera importante». Luigi Bosco – ex presidente dell’ordine degli ingegneri di Catania, già assessore alle Infrastrutture del Comune etneo e della Regione siciliana per un breve periodo sul finire del mando di Rosario Crocetta – si è sempre occupato di prevenzione e antisismicità delle grandi opere. Anche lui è rimasto impressionato dal disastro di Genova e, da tecnico, si interroga sulle ipotesi del cedimento del viadotto Morandi. Domande che in tanti si fanno in questi giorni: è possibile che un ponte crolli senza dare segni di preavviso? Dobbiamo preoccuparci attraversando i viadotti di autostrade e statali siciliane, costruiti in gran parte negli anni ’60 e ’70? Ci sono segnali di rischio che anche i comuni cittadini possono cogliere ed eventualmente segnalare? 

«Quando un viadotto cede – spiega Bosco – possono esserci due tipi di rotture: una definita duttile e l’altra fragile». Nel primo caso l’eventuale crollo è preceduto da una fase di deformazione della struttura. «Si vede ad occhio, il cemento armato si deforma, e solo dopo le le travi si rompono». Spesso è il risultato di un fenomeno detto carbonatazione, visibile da tutti quando l’armatura emerge dal calcestruzzo, ormai corroso, e si ossida. «Questo succede perché, a contatto con l’atmosfera, l’anidride carbonica reagisce con l’idrossido di calcio presente nella malta generando carbonato di calcio ed acqua. La conseguenza peggiore è sulle armature che si arrugginiscono, aumentando il proprio volume. Il cemento si lesiona e il copriferro viene meno, diminuendo la capacità di resistenza di tutta l’opera». È un processo di deterioramento che dipende dalla qualità del cemento e dallo spessore del copriferro. Quello appena descritto – che a lungo andare può portare alla cosiddetta rottura duttile – è quanto sarebbe potuto accadere sul ponte Gioeni a Catania (demolito tra mille polemiche sotto l’amministrazione Bianco, proprio quando Bosco era assessore), o ancora sul viadotto Morandi (gemello di quello crollato a Genova) che collega Agrigento a Porto Empedocle, chiuso dall’Anas a marzo 2017 dopo le denunce sulle sue precarie condizioni strutturali e in attesa del consolidamento. 

Ma il crollo di un ponte può anche essere causato da una rottura fragile, «cioè apparentemente improvvisa, senza segnali premonitori – sottolinea Bosco -. I cambiamenti in questo caso avvengono all’interno di alcuni elementi strutturali e sono poco visibili da fuori». Secondo l’ex presidente dell’ordine degli ingegneri di Catania, è quanto potrebbe essere successo a Genova. In questo tipo di rottura un ruolo determinante lo giocano gli stralli, cioè i tiranti che legano la cima dei piloni alla struttura. A Genova gli stralli erano in cemento precompresso. «Una tecnica – precisa Bosco – brevettata proprio dall’ingegnere Morandi che, se non eseguita a regola d’arte, può generare problemi. In Sicilia quasi tutte le travi del patrimonio autostradale sono realizzate in cemento armato precompresso e per questo necessitano di un’attento monitoraggio,di adeguata manutenzione e ove necessario di interventi di consolidamento o addirittura demolizione e ricostruzione». Nel luglio del 2014 il crollo improvviso del viadotto Petrulla tra Licata e Ravanusa fu causato proprio dalla rottura fragile delle travi in cemento precompresso. Ipotesi che potrebbe essere alla base anche del disastro di Genova. «Le possibili alternative – sottolinea Bosco – sono un cedimento istantaneo in fondazione o la rottura delle travi di impalcato precompresso con la conseguente destabilizzazione dei piloni».

Ci sono poi altri due aspetti che interrogano molti comuni cittadini in queste ore: la capacità di carico del ponte, cioè di sopportarte il passaggio di auto e mezzi pesanti, e la presenza delle case sotto al viadotto. «I ponti – spiega Bosco – subiscono cicli di carico non costanti, questo sistema di carico e scarica determina il fenomeno della perdita di resistenza per fatica. Le norme in questo senso ci sono e cambiano nel tempo perché i nuovi tir sono sicuramente più pesanti di quelli di una volta. Intervenire è possibile, in casi urgenti limitando la carreggiata, o anche sulla struttura stessa per migliorarne la resistenza, ma è necessario un monitoraggio costante e investimenti importanti. Negli ultimi anni vengono pure usati dei sensori che si inseriscono sui viadotti o negli edifici e restituiscono la misura dello stato di salute dell’opera. Io li ho fatti inserire in una decina in edifici a Catania».

La presenza delle case, infine, alcune attaccate ai piloni, non è cosa rara. Succede ad esempio pure sotto il viadotto Ritiro di Messina, sulla A20 per Palermo. Ai piedi dell’imponente ponte vivono centinaia di persone che verranno sgomberate in autunno a causa dei lavori di manutenzione straordinaria. «Una casa sotto un viadotto non si può costruire, ma un viadotto sopra una casa sì – sintetizza il tecnico – perché l’interesse pubblico può prevalere su quello privato. Se non c’è nessun altro posto dove far passare l’infrastruttura, può succedere che venga realizzata anche sopra le abitazioni».


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