La parabola di Mosaicoon e il destino delle startup «Fallire è parte del processo, si impara dagli errori»

Cadere dieci volte, rialzarsi undici. Il fallimento annunciato ieri di Mosaicoon – l’ex startup palermitana diventata poi un’azienda innovativa da oltre 100 dipendenti e sedi sparsi ai quattro angoli del mondo – è una batosta da cui Palermo fa fatica a riprendersi. In una città dove i dati relativi alla disoccupazione giovanile restano drammatici, la chiusura di uno dei pochi modelli considerati vincenti, quello dell’innovazione tecnologica, ha fatto riaffiorare nella maggior parte dei casi l’atavico senso di rassegnazione della popolazione. L’azienda che era specializzata soprattutto nella creazione di campagne video virali ha chiuso i battenti, e la splendida sede a Isola delle Femmine oggi è mestamente vuota. Nata da una startup nel 2009, che si è poi concretizzata in un modello di impresa giovane e multimediale, internazionale e multitasking, di Mosaicoon oggi resta un sapore di amaro in bocca difficile da inghiottire.

E viene da riflettere, in generale, su un’economia che troppo spesso ha raccontato il sistema delle startup come l’unico possibile per creare occupazione. Quando non c’è lavoro che fai? Apri una startup. Funziona ancora così? Le startup, in ogni caso, sono una sperimentazione. Poi, se il modello regge, le imprese devono andare avanti da sè, devono essere capaci di stare sul mercato. E non tutte ce la fanno. Se chiude Mosaicoon, che era l’esempio più felice, allora gli altri come stanno? Lo abbiamo chiesto a Monica Guizzardi, responsabile comunicazione del Consorzio Arca: il consorzio per l’applicazione della ricerca e la creazione di aziende innovative, attivo dal 2003, si regge su un partenariato tra l’Università di Palermo e un gruppo imprenditoriale privato impegnato nel campo della ricerca industriale e del trasferimento tecnologico. D’altra parte il consorzio ha sempre creduto e sostenuto l’operato dell’azienda. E allora, cosa resta di questa esperienza?

«Bella domanda» sorride inizialmente Guizzardi. «Sicuramente l’ecosistema territoriale, per così dire, ancora non consente lo sviluppo di impresa, specie nel Sud Italia. Intendiamoci, ci sono tante realtà che sanno stare nei mercati internazionali, come ha fatto Mosaicoon per anni». Fino a un paio di anni fa le startup erano all’apice del dibattito, facevano e creavano tendenza, erano il modello economico inseguito dai politici – non a caso l’ex premier Matteo Renzi visitò gli spazi Mosaicoon nel 2014. Forse è finita l’epoca del boom e adesso c’è una fase di assestamento, in cui resistono solo alcuni? O c’è altro? «Attorno a questo mondo c’è in effetti un po’ di fuffa – osserva l’esperta – nel senso che sono state spinte molte realtà, soprattutto al Nord e attorno a Milano, che parlavano solo di business, pitch ed eventi di networking, con tutta una serie di inglesismi che oltre il grande movimento mediatico avevano ben poco. E questa è una realtà. Ci sono poi esperienze di sostanza. Ma voglio precisare che, come tutte le sperimentazioni, il fallimento è una parte del processo. E l’innovazione è un concetto che va molto a tempo. Questo non significa aver gestito male le cose o essersi intascati i soldi, come ho letto in molti post su Mosaicoon». Quello che bisogna fare, insomma, è «imparare dal fallimento, perchè la chiusura di Mosaicoon apre comunque la possibile apertura di tante altre realtà, che magari poi diventeranno grandi. Ci sono ex dipendenti di Mosaicoon che se ne sono andati anni fa e che hanno creato dei prodotti d’eccellenza, ci auguriamo che la scuola di Palermo possa produrre altra innovazione e la volontà di rimanere in Sicilia, che è stata comunque una sfida enorme».

Se dunque ci si addentra dentro la conoscenza del mondo delle startup ci si rende conto che in realtà anche il tempo di vita di Mosaicoon, vale a dire nove anni, è comunque un periodo molto lusinghiero. «Sì, sono tanti anni in effetti. Il periodo più fragile per una startup è proprio quello iniziale, quando cominci a raccogliere i primi capitali: è un momento che in gergo tecnico viene chiamato la valle della morte e che Mosaicoon aveva ampiamente superato, con ottimi risultati. In ogni caso si trattava da tempo di un’impresa, non più una startup, e si sono scontrati con regole di mercato che sono cambiate. Se cambiano gli algoritmi di tutti i player succede di non reggere il passo, è la competizione». 

Se Mosaicoon va via, resta comunque Arca. A proposito: come sta il Consorzio? «Le prime startup le abbiamo supportate nel 2006 e adesso abbiamo un portfolio valido – racconta la responsabile della comunicazione – Sicuramente Mosaicoon era la nostra punta di diamante, che raccontavamo in giro e che continueremo a raccontare come caso di successo. Perchè secondo noi dagli errori si deve apprendere. E poi abbiamo sviluppato negli anni tre sedi: la prima all’interno della cittadella universitaria (dove ci occupiamo soprattutto di aziende tecnologiche), la seconda al Crezi.plus presso i Cantieri Culturali della Zisa (dove privilegiamo l’aspetto culturale e creativo delle attività) e poi a Petralia Sottana, all’interno di un ex macello, dove è nato un hub di accelerazione di aziende che hanno una particolare attenzione allo sviluppo del territorio (e che ci vede impegnati, nella creazione della sede, proprio in questi giorni)». 

L’espansione di Arca, insomma, è «indice di uno sviluppo del territorio, in Sicilia siamo in grado di fare innovazione e creare aziende, ci sono molti ragazzi pronti a investire in questo, la grande sfida è creare dunque strutture nell’Isola». Con la consapevolezza che bisogna andare fuori, assimilare esperienze e competenze per poi tornare a svilupparli nei territori. Resta comunque il dato di fatto che le startup creano in ogni caso pochissimi posti di lavoro, in tanti casi viene assicurata un’occupazione – precaria – solo per chi le inventa. «E’ vero, i numeri sono sempre molto bassi per quel che riguarda il numero dei posti di lavoro e succede perchè quello che viene investito si spende sulla fase di sviluppo del prodotto. Casi come Mosaicoon, che ha avuto oltre 100 dipendenti e sedi sparse in tutto il mondo, sono molto complessi». 

Se uno rimane ancorato al modello della grande industria, con centinaia di posti di lavoro e grandi strutture, si colloca già fuori scala, insomma. «Esatto, la startup non nasce per questo. Nasce per potere sperimentare qualcosa di nuovo. Anzi, sono le grandi industrie ad avere bisogno delle startup, perchè spesso non hanno i fondi per potere avere all’interno il reparto di ricerca e innovazione. E si rendono conto che per potere competere su mercati di lavoro internazionali sempre più veloci hanno bisogno del supporto delle startup, che fanno il lavoro sporco in un certo senso e sperimentano, si mettono in gioco, falliscono alle volte e prendono le batoste. Lo fanno in una maniera snella, in una struttura più liquida e leggera rispetto alla grande industria». 

Con Mosacooin muore dunque il mito, certamente abusato, della Silicon Valley in Sicilia? «Beh, in ogni caso ha portato il nome di Palermo e della Sicilia nel mondo, ricordo che è stata eletta come una delle startup più promettenti d’Europa» sottolinea ancora Monica Guizzardi. Una considerazione che si somma a ciò che è stato espresso dal sindaco Leoluca Orlando. «Mosaicoon ha simboleggiato la possibilità anche in Sicilia di costruire impresa innovativa, generando un percorso anche culturale con ricadute positive per il territorio in termini economici e di innovazione – ha affermato il primo cittadino -. Oggi Mosaicoon simboleggia le difficoltà imposte al sistema imprenditoriale da una sempre più estrema finanziarizzazione e il sempre maggiore monopolio nel settore hitech in mano a pochi colossi. Resta comunque, come patrimonio di tutti noi su cui continuare a costruire, quanto di positivo realizzato in questi 10 anni, per realizzare anche a Palermo e in Sicilia un salto di qualità non solo nel settore specifico della comunicazione, ma soprattutto in termini di apertura culturale al mondo».


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