Operazione Kitt, la filosofia di uno dei rapinatori «Tu devi fare il babbo, sembrare uno senza soldi»

«Ricordatelo, devi sempre fare il babbo tu… Lo hai visto? Io faccio il babbo. Devi essere furbo che appena fai lo sperto in un attimo iniziano a sparlarti». È il passaggio di una conversazione captata dai carabinieri di San Cataldo (CL) nell’auto di Giuseppe Colasberna, uno dei principali indagati dell’operazione Kittche ha portato ieri all’esecuzione di sei misure cautelari per rapina, furto, spaccio di droga, ricettazione e danneggiamento a seguito d’incendio. Un settimo indagato, un presunto pusher di Catania, è ricercato.

A parlare è Cristian Ivan Callari, classe ’90 e destinatario di ordinanza in carcere. Il 27enne predica prudenza all’amico e complice. Più accorto e lungimirante, anche per via di una precedente detenzione, Callari in diverse occasioni consiglia a Colasberna come comportarsi, invitandolo a non dare confidenza a nessuno e a risolvere le questioni con i diretti interessati, senza raccontare a terzi la commissione di reati. Non mancano i rimproveri per alcune decisioni, tra le quali la scelta di vendere una collana in oro dopo una rapina finita male. In quanto, il vero obiettivo, secondo gli inquirenti, sarebbe stato la casa dalla vittima dov’era custodita una pistola.

Ai due sono contestati numerosi furti, mentre al solo Callari il maxi furto in un appartamento di Corso Sicilia a San Cataldo che avrebbe fruttato 170 mila euro in denaro contante, oro, gioielli e due pistole. Il colpo più grosso in provincia di Caltanissetta negli ultimi anni. «Ci siamo calati dai balconi con le corde». Così Callari racconta a Colasberna il furto a cui l’amico non ha partecipato per paura di calarsi dal tetto con le funi. «I coglioni ci vogliono», ammonisce Callari. «Eh, non me la sentivo», risponde l’amico. Per quell’episodio, avvenuto il 16 ottobre 2015, i complici di Callari sono tutt’ora sconosciuti. Uno di loro, con cui Callari avrebbe spartito il bottino, è stato in grado di aprire una cassaforte super protetta con cinque vani blindati, dopo sei ore di lavoro, dalle nove alle tre di notte dentro l’appartamento.

Se di coraggio sembra averne meno, Colasberna appare di certo più intraprendente quando riferisce alla madre e alla moglie i suoi progetti futuri. Tra questi, un colpo alle Poste di San Cataldo ma anche una rapina a casa di un imprenditore di Riesi, di cui conosce l’abitudine di conservare i soldi a casa. Un blitz da realizzare travestiti da carabinieri per sorprendere la moglie, con una falsa auto di servizio. La sua stessa Alfa 156 nero metallizzato la cui carrozzeria andava però sistemata «a zenit» e con il lampeggiante.

Non sono chiacchiere, invece, la scia di furti contestata nell’ordinanza. I due rispondono di rapina in concorso e lesioni ai danni di un 60enne franco-italiano a cui Colasberna, il 17 settembre 2015, avrebbe strappato una collana in oro del valore di duemila euro, con l’aggravante della minaccia di una pistola. E poi un furto con scasso in concorso, a settembre 2015, presso una villetta di proprietà di un medico a Caltanissetta. Bottino: due condizionatori, un forno da cucina, un piano cottura, alcuni quadri, un capezzale, lumi per comodino, un profumo e pure un bicchiere portaspazzolino coordinato con il portasapone. I due avrebbero commesso, inoltre, altri tre furti in villette e abitazioni e uno in una villetta di contrada Vassallaggi di proprietà di un imprenditore, dove avrebbero rubato due televisori, uno dei quali da 60 pollici. Quest’ultimo è oggetto di rimostranze da parte di Callari nei confronti di Colasberna accusato di averlo venduto, mentre l’oggetto era destinato al suo uso personale. «Tu mi hai fatto due azioni che non meritavo. Una è la televisione che ti sei andato a vendere. Te l’ho data, sono entrato per primo e ti ho detto: “Tieni, questa è tua… e tu te la sei andata a vendere 300 euro».

Colleghi in fatto di crimini, Callari e Colasberna dimostrano un atteggiamento completamente diverso quando c’è da schermare la propria attività illecita. All’interno della propria auto, un’Alfa 156 più di una volta intercettata – al punto da essere un’auto parlante come quella del celebre telefilm anni Ottanta da cui prende il nome l’operazione – Colasberna parla alla moglie e alla madre indicando puntigliosamente le case depredate. «Dove siamo andati a prendere il condizionatore, il forno, il piano cottura. Gliela abbiamo spogliata, la casa», afferma, passando davanti a un villino. Pochi chilometri più avanti: «Questo villino ci siamo fatti e quello là sopra. Qui tre ce ne siamo fatti, quattro», spiega orgogliosamente. Affinché i colpi siano fruttuosi, tuttavia, c’è bisogno che le case siano abitate. Se no, nelle villette stagionali, non ci si trova «neanche la tv a schermo piatto». In auto è presente anche il figlioletto. Colasberna sembra sognare un futuro in cui il bimbo possa ricalcare le gesta del padre. «Mio figlio brum, brum. Dai che poi tu mi tieni la macchina in moto. Dobbiamo andare a lavorare. Quando cresce mio figlio… ci andiamo a fare le Poste». Proposito dal quale, però, la moglie si dissocia nettamente: «Ma va, te le vai a fare da solo le Poste».


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