Muretti a secco di Ragusa, fragili pezzi di storia Raccontati da Sciascia, appello per proteggerli

Chi di noi, lasciando il grigiore della città, non li ha visti spiegarsi in filari e filari, intrecciarsi l’uno con l’altro, tagliare la nostra campagna in fazzoletti scomposti, perdersi inghiottiti dall’orizzonte, oltre l’ultimo terrazzamento? Magari non ci facciamo neanche caso, ma loro sono lì. Grezzi, scontati, ma forti: sono i muretti a secco.

Forse ancora grigi sulle pendici dell’Etna, ma se ci spostiamo a sud, attraverso la piana di Catania e infine nel Ragusano, li vedremo farsi sempre più chiari, bianchi, e infine abbacinanti alla luce del sole, lì dove la pietra di cui sono fatti è calcare ibleo. E tutto ciò che luccica, si sa, attira le gazze. «Quando i ladri rubano le traverse, i blocchi di pietra posti alla sommità del muretto, l’impianto cede. Non essendoci malta, la tenuta del muro a secco dipende unicamente dall’abilità dell’artigiano che ha incastrato i conci irregolari come in un mosaico». È Daniela Boscarino, presidente del Movimento Azzurro di Modica, ecosezione Cava Ispica, a informare sui rischi che corrono i muri a secco della campagna iblea. 

La sua associazione, che Boscarino definisce di «ambientalisti del fare», ha sposato la causa della protezione del patrimonio paesaggistico, perché ben conscia del valore culturale di beni comuni che i suoi concittadini troppo spesso trascurano. «Alcuni di quei muretti sono in piedi da secoli – afferma quasi indignata -. La storia della lavorazione a secco risale almeno alla fine del XIV secolo, cioè a quando il conte Bernardo Cabrera per far fruttare le proprie terre le divise in enfiteusi da assegnare agli agricoltori. Furono questi a setacciare il terreno, liberandolo dalle pietre per poterlo meglio coltivare, e a erigere i primi muretti di confine. Così, col tempo, si vennero formando generazioni di maestranze e scalpellini abili nella lavorazione di quella pietra, che dopo il terremoto del 1693 avrebbe permesso la ricostruzione di tutti gli edifici della zona nel peculiare barocco della Val di Noto».

A portare alla luce il collegamento tra la lavorazione a secco e l’artigianato barocco sarebbe stato un locale storico dell’arte, Paolo Tiralongo, nel suo libro Le mani e la pietra. Ma la presenza del muro a secco nella cultura alta è stata testimoniata anche dal professore Paolo Pitino, e da Laura Giurdanella, dottoranda in Studi sul patrimonio culturale. A un recente convegno del Movimento Azzurro, Giurdanella ha esposto una relazione sulla presenza del muro a secco nella produzione di Sciascia, Bufalino e altri autori nostrani. 

L’intreccio delle pietre viene descritto nei testi studiati con la forza poetica della rievocazione di un passato in cui mito e storia si confondono. Così ad esempio il drammaturgo Enzo Siciliano, in un articolo del Corriere della sera, scrive: «Questi muretti sono costruiti con tanta cura ed anche grandiosità, quasi una mano gigantesca fosse calata dall’alto e si fosse divertita a disegnare una misteriosa scrittura di pietra». Scrittura di pietra che agli occhi dell’urbanista Pierluigi Cervellati assume invece «la trama di certi arcaici gioielli bizantini […] la proiezione ortogonale dei tracciati delle stelle», mentre per Franco Antonio Belgiorno sarebbero «come pettini di pietra conficcati sulla terra grigia».

Ma l’attenzione dello scrittore non si arresta sempre ad annotare lo schizzo bucolico. Si spinge oltre infatti Leonardo Sciascia, che nel libro La contea di Modica, con le foto di Giuseppe Leone, scrive: «Era la Contea un piccolo regno nel regno, una storia leggibile in modo inconfondibile mediante l’interminabile linea dei muri di pietra a secco che consiglierei dovrebbero essere tutelati come parte integrante e caratteristica del paesaggio». È così che l’occhio nostalgico del poeta si trasforma in uno sguardo critico sul mondo. «Non si tratta solo di un elemento romantico – sottolinea Giurdanella – il muro a secco in questi testi è riconosciuto come un vero e proprio fattore identitario, con un suo valore antropologico».


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