Mazara del Vallo, esempio di laboratorio etnico urbano «I tunisini hanno due anime: una araba, l’altra siciliana» 

A Mazara del Vallo, il canto del muezzin si sovrappone con l’omelia cristiana e coinvolge abitanti e passanti. Per qualche minuto Oriente e Occidente si contaminano fino a confondersi, come racconta l’antropologa Francesca Rizzo nel suo studio per l’Istituto euroarabo. Moschea e chiesa, adiacenti l’una all’altra, sono situate nel cuore dell’antico quartiere arabo, la casbah, in cui si insediarono i primi tunisini e dove continuano a vivere. «È una particolarità di Mazara. Forse è l’unico luogo, in tutto il resto d’Italia, in cui c’è il richiamo alla preghiera», spiega Abdelkarim Hannachi, impegnato da anni, nello studio delle dinamiche dell’immigrazione.

La vita della piccola cittadina siciliana, ieri come oggi, è indissolubilmente legata alla pesca, un’arte tramandata da padre in figlio. Alla fine degli anni ’60 la richiesta di manodopera nel settore della pesca attirò migliaia di disoccupati magrebini. «In Tunisia si vive di pesca, la maggior parte degli immigrati che arrivarono in Sicilia lavoravano in mare e svolgevano il mestiere che sapevano fare», racconta lo studioso.

La momentanea crisi del settore, tuttavia, induce alcuni marinai a cercare un’occupazione temporanea nelle campagne mentre le nuove generazioni, scolarizzate e istruite, sperano in nuove occasioni di lavoro. Hassine T. 28 anni, originario di Mahdia, è uno di questi giovani che dopo gli studi hanno trovato un impiego. «Ho frequentato la scuola alberghiera e da undici anni lavoro in un ristorante della zona – racconta a MeridioNews –. Questa professione mi ha permesso di stringere tante amicizie, sopratutto con i mazaresi. Adesso – continua – passo più tempo con loro che con i miei compaesani. Grazie alla mia educazione sono riuscito a integrarmi e ho anche una fidanzata mazarese».

L’interculturalità è evidente in alcuni luoghi di incontro tra immigrati e autoctoni. Il ristorante tunisino, situato nella casbah, è uno di questi. Gestito da donne di una famiglia maghrebina, è simbolo di emancipazione economica femminile. La proprietaria, Fathia, 67 anni, giunge a Mazara nel ’74. «Dopo il matrimonio io e mio marito ci siamo trasferiti qui. Quando sono arrivata non conoscevo nessuno ma nei mazaresi ho trovato una famiglia». Parla in dialetto siciliano, Fathia, mentre ricorda come è nata l’idea del locale. «Alcuni anni fa, quando mio marito è stato colpito da una grave paralisi, ho deciso di aprire questa attività. È stato difficile ma sono orgogliosa perché è un punto di aggregazione tra culture diverse», confessa. Madre di quattro figli, dichiara di sentirsi perfettamente integrata. «I miei figli nati e cresciuti in Sicilia, quando vanno in Tunisia si sentono degli estranei perché tutti i loro amici sono qui» aggiunge.

Rispetto ai loro padri, i giovani di seconda e terza generazione hanno maggiori possibilità di condividere spazi e situazioni con i loro coetanei siciliani. Hosny F., studente di 17 anni, nel tempo libero fa la guida turistica alla casbah. È nato da un matrimonio misto. «Mio padre è arrivato all’età di 14 anni mentre mia madre è nata qui. Noi tunisini – tiene a precisare – abbiamo due anime: una araba, legata alle nostre origini e l’altra siciliana che ci fa sentire parte integrante della società in cui viviamo».

Tra i mazaresi intervistati c’è sia chi parla dei maghrebini in termini di «arricchimento umano» come Melania, 28 anni, che ha deciso di legarsi sentimentalmente a uno di loro e chi sostiene che tra immigrati e autoctoni non c’ è piena comunicazione. «La mancanza di lavoro non aiuta nell’integrazione» ammette Debora, 22 anni, barista in un bar del centro. «Le cause – interviene Hannachi – sono economiche e politiche. Chi lavora non ha problemi identitari. Sono le condizioni materiali che determinano quelle culturali». Per alcuni immigrati la precarietà diventa uno status. «Come si può vivere – si domanda Sabry, 33 anni – senza un lavoro e con la continua ansia del rinnovo dei documenti?».

Nonostante tutto, Mazara continua a essere laboratorio urbano plurietnico. Ancora in fase embrionale, forse, ma con caratteristiche per diventare centro di un dialogo interculturale. «Lo spirito di tolleranza e coesione – termina il ricercatore – che contraddistingue entrambe le comunità è il primo passo verso un lungo e lento processo d’integrazione». 


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